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Nei ritratti di una città complessa e variopinta come Napoli si alternano visioni reali a quelle immaginifiche, se non addirittura surreali, che costituiscono il nucleo principale della raccolta e valgono forse di più delle prime, essendo il risultato di un pensiero che deve penetrare e capire oltre l’apparenza “nel tentativo di appurare se e in quale misura noi possiamo nutrirci delle sue vene per tradurre la sua ombra”. Una specie di forza centrifuga che si forma e agisce nel momento in cui si osserva la vita quale appare. Non è un caso che spesso nei racconti è stando affacciati a una finestra con i “gomiti sul davanzale” e “il viso incorniciato tra le mani” che si snodano i pensieri sulla realtà. Come pure è il sogno che spesso fa da filtro per leggere e capire. Non c’è una Napoli oleografica, lucida di stampa, dunque, ma una città che vive dentro i suoi abitanti (di lei vediamo solo una anodina Piazza Grande e il Caffè delle Rose). È questa simbiosi che l’autore vuole sorprendere e svelare: “Ahi, tutta questa scena è così falsa da essere vera”. Con tale intento nascono “La ripresa” o “Il mostro” o certe frasi de “La strada”. Sono ritratti ed episodi minimi, alcuni dei quali densi di significato e suggestivi come “La pioggia”, “Il fantasma”, “La triglia”, “La museruola”, “Il panino” (certamente questi tra i migliori, insieme con altri che seguiranno); intessuti di ironia e di paradossi come “La pistola”, “Il salotto”, “L’incendiario”, “Le anime morte”, “Il defunto” e così via; altri arricchiti di un nonsenso che apre squarci insondabili come “Le facce”, “Il testamento”, “La sparatoria”, “L’anestesia”, “Il gelato”. Sono i primi esempi che incontriamo, ma il passo resta sempre il medesimo e i personaggi cambiano nome ma sono diventati ormai il prodotto omogeneo di un humus abituato a dare gli stessi frutti ripetuti nel tempo. L’eccessiva frammentarietà, però, delle storie, che sono il risultato indubbiamente di spunti via via garantiti da un’osservazione attenta, arguta e raffinata, nel momento in cui, così nu
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