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Mi è piaciuto leggere questo libro perché ha dato una diversa continuità alle mie conoscenze storiche italiane più recenti. infatti mi sono sempre cimentato nella lettura di saggi e racconti di periodi ed eventi storici significativi senza mai soffermarmi a riflettere su quale fosse il loro possibile impatto sulla vita di tutti giorni delle persone normali. Il punto di vista utilizzato da Vassalli mi ha consentito di calarmi in questa dimensione avendo anche la possibilità di percepire quale influenza che fatti importanti e lontani avessero sulla semplice popolazione. E' pur vero che è stata scritta una profusione di romazi storici ma quelli che ho letto sino ad ora mi hanno spinto a soffermarmi sui personaggi della storia narrata senza lasciarmi distrarre dal contesto storico generale. Secondo me è un libro utile a tutti e particolarmente agli studenti delle scuole secondarie ed anche superiori per rendere pù reali le nozioni storiche acquisite.
Sono arrivato in ritardo a leggere questo libro perquanto io sia di Novara, la città che fa da sfondo a questo "scritto" storico-sociale, che anche se non viene mai nominata esplicitamente, per chi ci abita o abita nelle vicinanze è difficile non riconoscerla. Non penso che sia di interesse generale perchè estremamente circoscritto ad una zona "normale" dove non succede quasi mai niente, ciò nonostante trovo che sia ben scritto ed abbastanza coinvolgente anche per un non-novarese. E'curiosa la storia di questa "casa", che poi è un vero e proprio palazzo, che inizia alla metà del 1800 e che vede la sua travagliata costruzione e l'ancor più difficile sopravvivenza. Elegante è la descrizione dei personaggi che vi abitano o che gravitano attorno ad essa, personaggi di ogni genere e specie che fanno di questo edificio un vero essere umano con un vero e proprio cuore (.....anche se di pietra). Ne valeva la pena!
Recensioni
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recensione di Coletti, V., L'Indice 1997, n. 1
Come era facile prevedere, Giampaolo Pansa ha continuato la sua rivisitazione della nostra storia recente con un terzo romanzo, "I nostri giorni proibiti". Il giovane Marco, figlio di un ex capo partigiano assassinato misteriosamente nel dopoguerra, cerca nel passato del padre il volto e le ragioni del suo assassinio e trova le contraddizioni della lotta partigiana, le brutture e le violenze che sono in tutte le guerre e in tutti i campi quando la ferocia e l'odio spadroneggiano. A saldare nel privato i conti pubblici che il racconto vuole riaprire, Marco incontra il probabile (plausibile) assassino del padre, una giovane donna, figlia di una spia uccisa dai partigiani; e se ne innamora. Tra i due si rinnova e compie così il contorto sentimento nato nei giorni della disperazione tra la donna stessa, oltraggiata dalla vendetta partigiana, e il padre del ragazzo. Inevitabile allora che l'intenso e romantico amore, per continuare, chieda che sia dimenticato il terribile passato di cui i due protagonisti sono vittime ed eredi, stendendo su di esso (sulla crudeltà e violenza di tutti e specie su quella degli amici, dei compagni, dei "nostri") quel velo di pietà, che invece il romanzo alza scavando inflessibile nel dolore e nelle vergogne da cui - non meno che dalla generosità e dall'onore - è nata la libertà repubblicana.
È singolare che il cronista Pansa, che affronta gagliardamente il nostro presente in prima persona, debba nascondersi in personaggi assai letterari per rivisitare il nostro passato e si esplori e confessi in queste vesti molto più di quanto non si esibisca in quelle, all'apparenza più esposte e dirette, di giornalista. Tra l'aggressivo condirettore dell'"Espresso" (giornale pubblicizzato persino nel libro!), in prima fila nel drastico giustizialismo contemporaneo, e il perplesso giovane Marco del romanzo, che cerca e impara che non si può trovare la linea esatta che divide il bene dal male, i buoni dai cattivi, c'è uno iato che non mi so spiegare. Che, per avere una spiegazione, occorra aspettare un altro romanzo del Pansa narratore o un nuovo libro del Pansa giornalista?
Il racconto della storia italiana (in questo caso degli ultimi, si fa per dire, centocinquant'anni) in forma di romanzo è in "Cuore di pietra" di Sebastiano Vassalli. Ne è protagonista una casa in una città di provincia dell'alta Italia, dei cui proprietari e inquilini Vassalli ricostruisce per sommi capi l'esistenza, a partire da quando la casa nacque come villa padronale fino al suo squallido abbandono ai nostri giorni.
L'operazione narrativa, va detto, non convince; persino meno di quella storiografica, che rilegge le vicende italiane, anche le più tragiche, in chiave deliberatamente tragicomica e farsesca. Il tentativo di adattare il vetusto romanzo storico a narrare storie non di personaggi maiuscoli, ma della folla dei minimi è di per sé un progetto interessante, che conta nel Novecento europeo alcuni capolavori e, di recente, può vantare in Italia l'ottima serie di "Vite di uomini non illustri" di Giuseppe Pontiggia. Vassalli ci ha provato, delegando a una casa il ruolo di contenitore e protagonista, a fronte del quale tutti i personaggi sprofondano nell'anonimato e nell'insignificanza di esistenze secondarie e irrilevanti. Ma l'operazione è minata dalla presenza di un narratore troppo ingombrante e vistoso, che prende sempre la parola e racconta la storia della "nostra casa" (come dice cento volte) con un'ironia greve e incompatibile col progetto narrativo prescelto. Così ingiustificata, che Vassalli sente il bisogno di spiegarla fabbricando una fasulla cornice al romanzo, in cui appaiono addirittura gli dèi che ridono degli uomini e della vacuità della loro vita. La chiave così esibita (per cui lo stile dell'opera sarebbe come l'eco della voce e delle risate che scendono da un nostrano Olimpo) dovrebbe dar ragione della forma della scrittura e della qualità dei giudizi (politici, culturali, di costume...). Duole dire che né l'una né l'altra sono all'altezza della fama del loro autore.
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