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Il saggio di Lerner ha un titolo provocatorio: “Odiare la poesia”, cioé la più innocua e forse inutile delle attività artistiche umane, che però mantiene anche oggi una «formidabile valenza sociale… mista al senso della sua formidabile marginalizzazione nella società». L’autore commenta alcune composizioni di classici della lingua inglese e di altri contemporanei, contestando violentemente il parere negativo che alcuni critici esprimono su quasi tutta la produzione attuale, accusata di essere troppo individualista, soggettiva, disinteressata agli ideali nazionalistici, indifferente alla cultura popolare e alla tradizione letteraria, incapace di farsi universale, parlando a tutti e per tutti. Più in generale, Ben Lerner individua la diffidenza che il mondo ha nutrito e nutre nei riguardi di chi scrive in versi (da Platone in poi), in tre motivi fondamentali. In primo luogo, nella sua inadeguatezza a raggiungere l’obiettivo cui tende: la poesia non riesce «a superare la dimensione finita e storica – il mondo umano fatto di violenza e differenza –, a raggiungere il trascendente e il divino». Secondariamente, l’aspirazione dei poeti a esprimere una particolarissima sensibilità e umanità che li differenzi dalle persone comuni, nelle quali si sviluppa un ovvio risentimento di esclusione e inferiorità, che spesso si tramuta in disprezzo e irrisione. Infine, nell’imbarazzo che nasce sia in chi scrive sia in chi legge poesia nel constatare l’abisso esistente tra la promessa di una rivelazione emotiva capace di trasformare le coscienze e la società, e l’effettivo risultato politico e culturale che ne deriva, in pratica nullo. La poesia non serve a niente, seccondo i più; è un’arte illusoria che circola in ambienti elitari, un’attività privata che non aiuta il mondo ad essere migliore, ma si limita a soddisfare l’ambizione dei pochi che la praticano. Odiata sì, ma indispensabile.
Recensioni
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La poesia, si sa, sta sempre peggio.
I racconti vendono poco? La poesia meno.
La narrativa di qualità fatica in libreria? La poesia non ci arriva proprio.
Il campo letterario è fatto di gruppi? Quello poetico di conventicole.
I romanzieri non arrivano a fine mese? I poeti crepano direttamente di fame.
Eppure non si dice che dietro a ogni romanziere c’è un poeta fallito? Non è ovvio che una poesia davvero riuscita sfondi barriere che un grande romanzo può solo sfiorare? Vi è contraddizione profonda nella poesia e nel modo in cui ci rapportiamo a essa, come mette ben in luce Ben Lerner, noto come romanziere per Nel mondo a venire (Sellerio) ma anzitutto poeta (e valido: si legga Le figure di Lichtenberg, edito da Tlon), nel suo brillante saggio Odiare la poesia, uscito sempre per Sellerio, dove si suggerisce che la poesia è fatta proprio per non piacere, per non interessare, per essere odiata, e che però da tale paradosso si alimenta la sua prossimità alla natura umana.
Che fare allora? Forse solo ribadire che c’è ancora, sugli scaffali, poesia che merita di esser letta e consigliata.
Vanni Santoni
Troppe metafore, troppe parole poetiche, troppi discorsi intorno alla nobiltà e alla sacralità dell’arte, scriveva nel 1947 Witold Gombrowicz in un saggio che fece tanto arrabbiare Ungaretti, intitolato Contro i poeti. Poeti che secondo lui non facevano altro che elogiarsi a vicenda, vivendo lontani anni luce dalla realtà, «mentre noi rimaniamo alla base, a terra, un po’ confusi». «Il mondo della poesia – continuava Gombrowicz – è un mondo fittizio e falso, non mi piace per la stessa ragione per cui non mi piace lo zucchero puro, che va bene con il caffè, ma non da solo».
Chissà che Ben Lerner, poeta e scrittore americano classe 1979, non si sia ispirato a quel saggio per scrivere il suo Odiare la poesia, appena pubblicato in Italia da Sellerio. La premessa fondamentale è il disprezzo – anzi l’odio, appunto – per le poesie una volta che vengono scritte: un odio condiviso da chi le legge e da chi le scrive, che alla fine si affida sempre a quel «neanche a me piace» di una poesia di Marianne Moore dove poi è possibile scoprire, però, «uno spazio per l’autentico».
Nel suo secondo e per certi versi autobiografico romanzo, 10:04 (pubblicato in Italia sempre da Sellerio col titolo Nel mondo a venire), che l’ha portato a essere conosciuto in tutto il mondo – in cui si racconta parte della vita di uno scrittore ebreo americano nato nel Kansas nel 1979 alle prese con problemi cardiaci, un’amica in crisi per via del cosiddetto orologio biologico e le aspettative per il secondo romanzo –, il protagonista di tanto in tanto nomina qualche poeta che è stato importante per la sua formazione, da Whitman a quelli della Scuola di New York, confessa di essere diventato poeta dopo aver ascoltato un discorso di Ronald Reagan, e un giorno rimane sorpreso quando la sua agente gli dice: «è stato più facile mettere all’asta l’idea del tuo prossimo libro che le pagine che veramente scriverai». «L’idea mi piaceva moltissimo – dice – il mio romanzo virtuale valeva più del romanzo reale».
Ed è proprio lo scarto tra virtuale e reale a muovere quel libero flusso di pensieri che è Odiare la poesia. Il poeta, secondo Lerner, è una «figura tragica», e la poesia è «la testimonianza di un fallimento». Durante l’infanzia ci confondono, ci illudono, ci mettono in testa l’idea che siamo tutti poeti, che le poesie le hanno inventate apposta per noi, per i sentimenti che proviamo e che non riusciamo a tirar fuori con i gesti e con la voce. Lerner chiama in causa ovviamente Platone, che nella Repubblica attacca i poeti colpevoli di alimentare, soprattutto nei giovani, il cosiddetto elemento erotico dell’anima, allontanandoli da quello razionale; ma anche Philip Sidney, che in Difesa della poesia sostiene che la poesia è superiore sia alla storia che alla filosofia, capace di commuoverci e «non solo di insegnarci i fatti»; e Percy Bysshe Shelley, secondo il quale «la poesia più magnifica che sia mai stata comunicata al mondo è forse solo una fievole ombra della concezione originaria del poeta». All’eufonia di Keats Lerner preferisce la dissonanza della Dickinson, riflette sull’io vastissimo di Whitman che «contiene moltitudini», e si mette dalla parte di quelli che, come lui, hanno scritto delle poesie, ma che un giorno hanno avuto il coraggio di smettere perché hanno capito che la poesia è impossibile, che esiste solo quando viene immaginata, e una volta che finisce sulla pagina scompare. Il «problema fatale» della poesia, in fondo, saranno sempre le poesie.
Giorgio Biferali
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