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recensione di Frabotta, B., L'Indice 1992, n. 4
Dietro il titolo di questo volume - panoramica degli ultimi trent'anni di poesia italiana - c'e un'idea precisa della temporalità (e dunque della periodizzazione storica dei fatti letterari) che si fa risalire a Benjamin. La fiducia nel presente come lacerata attualizzazione del passato e non come "attualità livellatrice" illumina il percorso della Lorenzini anchc se, per chiarezza, bisogna subito dire che essa si cala in forme fenomenologiche, liberamente adottate, ma ben riconoscibili. Ne sono prova il debito, non certo dissimulato, verso il "maestro" Anceschi (la Lorenzini è da anni redattrice del "Verri") e la fascinazione che sulla sua scrittura esercita il pensiero poetico di Antonio Porta.
È Porta a guidare la perigliosa navigazione da "mare dell'oggettività" al "mare della complessità", fino ad approdare a un "senso della letteratura" civile, responsabile, vitale (nonostante tutto e contro tutti). Fino a che il flusso, nient'affatto magmatico e rizomatico, non si distribuisce in canali di irrigazione separati, ma contigui, dove scorrono, perennemente in transito, i nomi dei poeti chiamati all'appello fuori delle ovvie categorie delle generazioni, delle cronologie, dei luoghi geografici. Sin dall'inizio la Lorenzini si mette in gioco come interlocutrice di un dialogo, cui fa coro l'inquieta e inafferrabile polifonia dei lavori in corso, del non ancora definito. Con mente vigile e orecchio finissimo, compulsando insieme poesia e poetica, prima ascolta ciò che i poeti hanno da dire. Può capitare che chi è capace di autocoscienza venga privilegiato, ma non è affatto una regola. Alcune pregevolissime pagine, fra i lombardi, sono dedicate proprio a poeti quantomai parchi nelle dissertazioni: Sereni e Cucchi, per esempio.
Ma la Lorenzini non si limita ad ascoltare la voce dei poeti, ma volta per volta risponde, suggerisce, orienta: il "presente della poesia" è anche cosa sua, riguarda il suo futuro e chi la pratica. Da ciò il respiro di questo libro, aperto, ampio, generoso. E, naturalmente, anche lo scandalo o la disapprovazione di chi ritiene la poesia un genere obsoleto e defunto insieme con il suo fondamento ontologico. La Lorenzini insegue testardamente un progetto abbastanza lieve da sfumare nel sogno e sufficientemente solido da resistere alle intemperie subite dalla sua e dalla nostra generazione. Non molla la presa a costo di un instancabile pedinamento. Ma non si estenua poi nel brivido del contatto, nell'impressione sensibilistica vagolante in uno spazio poetico ridotto a bolla d'aria, a simulacro delle morte stagioni.
La Lorenzini tratta i poeti, più che la poesia, come materia riplasmabile in modelli inusuali e imprevedibili, in affascinanti figure di pensiero. Si può dissentire, rimpiangendo il ritratto a tutto tondo che, confessiamolo, è l'aspirazione segreta di ogni poeta. E se c'è qualcosa che vorrei rimproverare alla fervida intelligenza della Lorenzini è l'insofferenza o la dimenticanza del valore diflerenziante dell'esperienza. Qualche volta la Lorenzini ci ragiona troppo su, o fa ragionare troppo i suoi poeti. Ma una volta formulata questa obiezione son subito tentata di rimangiarmela. Primo: perché, in presenza dei poderosi rivolgimenti storici cui stiamo assistendo il sostegno della ragione torna indispensabile. Ed è meglio lamentarne l'eccesso, piuttosto che il difetto. Secondo: perchè questo libro viaggia su un cocchio guidato da due cavalli, entrambi robusti e di buon fiato. Uno ci traina, con passo sicuro, verso l'"eidos"non tramontato, anche se velato da nubi e sintomi contrapposti; l'altro, più nervoso e indomabile, intuisce che "la scrittura poetica eccede sempre le intenzioni del soggetto e del contesto in cui si situa, affermazione di un doppio, una distanza, un'alterità che si misura sulla vitalità della parola resa oggettiva, espropriata al sé". In quella intercapedine, più segreta e labirintica, sempre ai limiti della sopravvivenza, la poesia si mette allo scoperto come passione, spreco, ipnosi del diverso. E la critica allora non può far altro che seguirla, farsene complice, "servile". Come fa appunto anche la Lorenzini nelle belle letture di Caproni, di Bertolucci, di Luzi, della Rosselli, dove l'"essere" si prende la sua rivincita contro l'etica, qualche volta un po' conculcante, del fare.
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