Finalmente uno dei maggiori scrittori contemporanei in lingua inglese, Caryl Phillips, è pubblicato anche in Italia. Al silenzio imbarazzante ripara Mondadori, che dà alle stampe l'ultimo romanzo del cinquantenne scrittore anglo-caraibico-americano, definito da uno dei critici letterari del "New York Times", non certo noti per la docilità, "uno dei giganti letterari del nostro tempo". Sotto la nevicata segue otto romanzi, svariate opere teatrali, radiodrammi, sceneggiature per il cinema e libri di saggistica; ma forse sarebbe bene prendere a prestito il concetto di non-fiction per volumi come The European Tribe e A New World Order, che intrecciano epoche, narrazioni, generi letterari, riflessioni personali ed eventi storici in uno stile che accompagna tanto il dettaglio della cronaca quanto l'introspezione psicologica con afflato poetico.
Caryl Phillips, nato a St. Kitts, è cresciuto nell'Inghilterra degli anni sessanta e settanta. I conflitti etnici che imperversavano in quegli anni forgiano la sua arte. In Sotto la nevicata il contrasto tra bianchi e neri, tra il mondo anglosassone conservatore e respingente e l'immigrazione che ormai di quel mondo è parte integrante, sottende ogni relazione tra i protagonisti. Più degli altri romanzi di Phillips, popolati da personaggi solitari, questo è costruito sulle relazioni.
Sotto la nevicata racconta la storia del quasi cinquantenne Keith Gordon, figlio di immigrati delle Indie Occidentali e dirigente di un ufficio per l'integrazione razziale di Londra, che è alle prese con un divorzio un po' affrettato dalla compagna di vita di sempre, l'inglese Annabelle, figlia unica di un militare conservatore determinato a non accettare il genero e di una madre incapace di tenere testa al marito. Con Annabelle, Keith condivide anche la preoccupazione per il periodo di sbandamento del figlio adolescente, Laurie. Nonostante siano già separati, Annabelle gli sta accanto anche nel momento in cui Keith viene accusato ingiustamente da una giovane collega di molestie sessuali, rischiando così di perdere il posto di lavoro. È sempre la moglie a sostenerlo nei momenti più difficili della sua vita di uomo della middle class, con un passato familiare complesso, che attraversa la più classica delle crisi di mezza età. La loro relazione fa da perno alla narrazione, diventando anche metafora della relazione che segna la società inglese dal dopoguerra a oggi: quella tra la madrepatria, bianca come Annabelle, e i figli dell'impero, black e British come Keith. Si tratta di un vincolo indissolubile, o almeno così il finale del romanzo ci induce simbolicamente a pensare. Ma se oggi il figlio Laurie, al padre che gli chiede se i poliziotti lo hanno maltratto per via del colore della pelle, può rispondere sbalordito, "Ma che stai dicendo? Lo sbirro che mi ha interrogato era nero", è perché le generazioni prima di lui, quella del padre Keith e quella del nonno, hanno pagato un sacrificio alto. Le malattie, la mortalità precoce, l'insanità mentale provocate dal sentirsi estranei e rifiutati, anche con violenza, da una società che si credeva di conoscere a menadito ma che in realtà era solo un'"idea", annichiliscono i migranti della prima generazione, spezzandone legami e vite.
Il conflitto etnico e quello tra generazioni sono tematiche centrali e costanti nelle opere di Phillips. Tuttavia in questo romanzo, differentemente dagli altri, i conflitti trovano una risoluzione, pure se timida e parziale. Se la conclusione lascia il lettore incerto sui possibili sviluppi della vicenda, è pur vero che un ordine, anche se provvisorio, è ristabilito. La vita continua, a fronte della morte, della follia, dei soprusi dei prepotenti, delle ristrettezze economiche e persino delle condizioni climatiche inclementi.
Come ultima nota, si deve constatare che la traduzione non sempre rende giustizia al testo originale. A parte qualche ricercatezza bizantina che non appartiene all'asciutto lessico di Phillips (quanti di noi "sprimacciamo" il divano?), la lingua del magnifico monologo finale del padre di Keith sembra che si confaccia più a un giovane di oggi che non a un vecchio signore moribondo delle Indie Occidentali con una grande passione per la lettura e il diritto. È difficile per il lettore immaginare l'inglese della terra e della generazione di questo vecchio signore in idiomi come "la tipa" o "alla grande". Ma ciò non impedisce al monologo di ammaliare il lettore fino alle parole conclusive.
L'auspicio, infine, è che questo sia solo il primo tra i romanzi di Phillips a essere tradotti in italiano e che l'editoria nostrana gli dedichi l'attenzione che merita, e di cui già gode nelle lettere internazionali. Alessandra Di Maio
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