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scheda di Cuniberto, F., L'Indice 1997, n. 4
La critica della soggettività o della coscienza come luogo del senso ha raggiunto com'è noto le sue forme estreme nella filosofia francese degli anni settanta: un clima teorico da cui ci sentiamo lontani, non fosse per il suggestivo e personalissimo itinerario di Jacques Derrida. Il libro di Dalmasso ha il pregio evidente di riformulare quella critica "decostruttiva" muovendo da tutt'altro orizzonte, ossia dalla tradizione neoplatonica e dallo stesso Platone. Ci si accorge allora che dietro le formule "selvagge" degli anni francesi - non ultima, l'ennesimo "rovesciamento del platonismo" (Foucault) - si nascondeva una linea teoretica di più alto profilo. Quella che già nel "Cratilo" sospende le pretese fondative del soggetto parlante mostrando come la verità della parola sia in funzione del suo "etimo", la sua origine. Ma la teoria platonica dell'etimo come ciò di cui il soggetto non dispone si riporta in realtà a una strategia più ampia, che identifica nel Bene il principio impensabile e prelinguistico di ogni discorso, e che pone il Bene come l'Uno. Se agli sviluppi di questo tema - il Bene-Uno neoplatonico come principio generale di coerenza - è dedicata la parte centrale del volume, i due saggi conclusivi si soffermano sul problema della temporalità. In Plotino, e poi in Agostino, si delinea la concezione di un tempo "originario", che non può essere misurato perché è esso stesso la misura, cioè l'origine del prima e del poi, ed è, in questo senso, la struttura non oggettivabile della generazione. E infine Vico, dove il tempo come struttura generativa si scandisce secondo una legge triadica che vede nel tempo finale il luogo del "risurgere", e più precisamente di una "resurrezione nel sapere".
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