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Questa plaquette si definisce (secondo l’approfondita postfazione di Paolo Maccari) attraverso una sua “asciuttezza e nudità” tendente “all’indagine di sé dentro un individuato contesto sociologico oltre che psicologico”. I personaggi descritti dai versi di Turolo (di una disarmata semplicità, secchi e immediati) sono proletari o piccolo-borghesi, sempre disillusi, vinti e disperati: colti in un frangente particolare della loro esistenza, che spesso coincide con l’attimo fatale della morte, oppure con il momento rivelatore che li inchioda alla loro sconfitta. Così leggiamo di infermiere di un pronto soccorso indifferenti all’agonia dei pazienti. Del prete che si imbosca nel cinema porno di una città lontana e, colto da infarto, viene riconosciuto per il colletto del clergyman dimenticato sotto il cappotto. Dell’anziana pensionata che si rifiuta ai parenti e al mondo, ma il cui cadavere in decomposizione è ritrovato dai vicini insospettiti per l’accumularsi della posta. Del pugile sudamericano gay che uccide il suo avversario sul ring perché offeso da un insulto omofobo di lui. Dell’ex carabiniere caduto in disgrazia sociale ed economica, che quando tenta un gesto eclatante contro le autorità sbaglia mira e obiettivo, fallendo anche nella sua ultima impresa. I versi di Antonio Turolo, così piani e di facile presa sul lettore, tendenti a mimare la secca prosa giornalistica, sono intercalati da brani di contro-commento esplicativi, pezzi diaristici in cui i protagonisti delle poesie offrono una loro verità alternativa, con inserti di dialogo, talvolta multilingue, o monologhi al limite della fantasticheria psicotica. Si intravede una qualche eredità con i personaggi perdenti e rassegnati di Elio Pagliarani, nel tono risentito e pietoso con cui il poeta li avvicina, comprendendoli e giustificandoli, in un j’accuse sociale più amaro che indignato, e nell’abilità quasi cinematografica dei primi-piani di notevole intensità descrittiva.
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