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Dove sono finite "le grandi idee a cavallo / e le virtù dai lunghi capelli in vestiti ricamati", le Allegorie, con tanto di lettere maiuscole come targhe di automobili? Non hanno più un posto dove andare, visto che nella Selva della Disperazione ululano solo le seghe meccaniche dei taglialegna, la Valle del Perdono è infestata dai condomini e gli altri luoghi della Retorica sono scomparsi. E la Giustizia è là, "in piedi accanto a un frigo aperto" (bellissima immagine!). Le grandi astrazioni sono ormai andate in pensione in una Florida per tropi. Il loro posto è oggi occupato dalle cose qualsiasi che preferiamo nel nostro tempo e nelle nostre stanze comode ma senza prestigio; come un vaso di peonie, un fermaglio per soldi, una cassetta postale vuota, "oggetti che si dispongono quieti nella riga con lettere minuscole".
Questo è il mondo che il poeta americano Billy Collins, nato nel 1941, ceppo irlandese, eletto poeta laureato Usa nel 2001 (ma qualcuno in merito ha storto il naso), osserva e fa parlare con la lingua dimessa di tutti i giorni, e che ora possiamo apprezzare nella godibilissima raccolta curata e tradotta da Franco Nasi.
Già il frontespizio gioca a spiazzarci, mescolando paradossalmente i titoli di due vecchi libri famosi: Navigando da soli attorno al mondo del leggendario Joshua Slocum, primo circumnavigatore solitario, e Viaggio attorno alla mia stanza di Xavier de Maistre. Anche questo è un diario di bordo, osserva Nasi nella postfazione, ma redatto sornionamente "in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un'ora da New York".
In poesia è difficile rinunciare alle figure del discorso. Ce lo ricorda anche Charles Wright (un poeta americano pur agli antipodi di Collins). In Breve storia dell'ombra, appena uscito da Crocetti, Wright ammette che in una sua "poesia sull'allegoria è impossibile tenere l'allegoria lontana dall'interferire". Così Collins, nel suo studiolo pulitissimo ("il candore è nipote dell'ispirazione"), costretto a trovare sostituti ai tropi ormai in quiescenza, ne inventa di nuovi, metafore e altre figure e immagini diciamo antiretoriche che gli consentono di portare avanti il suo monologare orecchiabile, mai ripetitivo, alieno alle oscurità novecentesche di maniera, con un lessico accattivante che usa il light verse senza giochi fonetici fini a se stessi.
L'oggetto di un'immaginaria Gelosia se ne sta lì "rannicchiata in un dolce gomitolo di sonno"; la cagnolina del poeta, che se ne va fuori ogni mattina "senza neanche un soldo / né le chiavi della cuccia / non manca mai di riempirmi la ciotola del cuore / di lattea ammirazione". Nel Consiglio agli scrittori si suggerisce di pulire "come se il Papa stesse arrivando" non solo lo studio ma tutto il mondo, i campi e gli alberi, e quando il poeta rincaserà, potrà ricoprire "pagine di piccole frasi / come lunghe file di fedeli formiche / che ti hanno seguito fin qui dal bosco". Invece la Neve che cade è così indifferente che si accorda con tutto: l'adagio per archi, l'assolo di Monk, leggere il giornale o L'Essere e il Nulla.
Una creatività diversa, quella di Collins, ma di matrice profondamente americana, che si rifà non solo a Whitman, Frost, Crane, Ferlinghetti, ma anche alle Merrie Melodies disneyane, al blues e al bebop. L'autore contamina con arguzia (il wit caro alla poetica anglosassone) richiami tradizionali ed elementi non-poetici, componendo microstorie in cui troviamo spesso "inaspettati slittamenti di senso" (Nasi), ma dove la forma non disperde mai la trovata brillante. L'humourè utilizzato come "percorso verso il serio". Una poesia, dunque, che vuol essere, hobbesianamente, utile e divertente, da condividere con gli amici nelle riunioni serali.
Carlo Vita
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