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Come ricorda Dante Isella nella sua postfazione, Piero Bianconi è un raffinato maestro di stile. La sua prosa rende onore a quel lembo di Lombardia incuneato nella Confederazione elvetica che da sempre dà un contributo qualificato alla letteratura e all'arte italiana. Si noti, solo per dare un esempio, come la discreta e consapevole densità di figure si combini con l'esattezza della descrizione in questo passo, nel quale lo stile nominale sposta fuori dal tempo un settore del "circolo chiuso, senza né principio né fine" dei lavori della vigna: "Sulla fine dell'inverno, sostituire i pali stanchi, e la delicata chirurgia della potatura, abbracciare con l'occhio il ramificarsi dei tralci, meditare e poi zac, un colpo secco delle forbici (le donne seguaci a raccogliere i tralci e legarli in fascine, il fuoco dell'estate si manteneva con quelle), legare il tralcio così amputato con un sottile vimine, tolto alla coda d'oro infilata nella cintura dei calzoni". Chi ha vissuto il rito prova un brivido.
Eppure, l'interesse maggiore del libro è nel tema: l'emigrazione dall'orgogliosa malora delle più povere valli alpine, dove il contadino non è bracciante o mezzadro, ma piccolo proprietario. Ha casa e terra, la mucca, la pecora, il maiale e le galline, ma non sufficienti a nutrire la famiglia, per non parlare del futuro. Ora l'Italia è terra di immigrazione, ma ancora tra le due guerre, era terra di partenze, quando non di fughe, magari proprio verso la Svizzera. Solo cinquant'anni prima, al tempo dei nonni e degli zii di Pietro Bianconi, le vallate povere del Ticino avevano vissuto la stessa sorte. La storia si ripete, cambiano gli attori, le provenienze e le mete, "Ma sotto le differenze di superficie, gratta gratta, la tristezza è sempre quella, la difficoltà della lingua, il pensiero struggente del mondo perduto, e la vaga angoscia davanti al mondo nuovo". Chi ha le radici più solide, è sempre lo stesso che deve tagliarle. Sotto la scorza di cinismo ostentata da chi ha lasciato la malora di casa per il miraggio della fortuna ("se si muore anche in questi paesi c'è terra abbastanza" scrive lo zio Battista dalla California nel 1880), si nasconde l'insopprimibile senso di colpa di chi si è abituato a pensare che persino il povero pane quotidiano, la mela caduta dall'albero, sia già di per sé uno spreco di beni preziosi: il nonno Barbarossa assaggia i dolci e mormora: "Però non dovrebbe essere permesso di mangiare roba così buona". L'apologo si chiude con una morale anch'essa fuori dal tempo: "Una non avara mano distribuisce la sua razione di pena a ognuno che respira nel mondo".
Michele Prandi
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