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Descrizione


Bologna, primavera 1977. L'università è occupata. Al DAMS c'è un professore stravagante, Gianni Celati, che scrive saggi geniali e non si stanca mai di raccontar storie. Così il suo seminario su Lewis Carroll si trasforma in un collettivo politico, una scuola di scrittura creativa, un cineclub, un concerto rock, un set psicanalitico. Soprattutto un posto dove «farsi delle storie». Alice è l'emblema del Movimento. Un'Alice disambientata perché ormai è dappertutto: cade, precipita, rimpicciolisce e ingrandisce. Il suo, dicono gli studenti e scrupoloso annota il prof, è «un modo per non farsi catturare». Nasce questo volume, esperimento di scrittura collettiva, libro-nonlibro, frutto della collaborazione tra individui «che si identificano molto l'uno nell'altro (si innamorano anche) ma non si identificano più in nessunissimo capo». Un volume che ora l'autore riscrive da cima a fondo, corredandolo di illustrazioni scelte nella grande tradizione iconografica del capolavoro di Carroll, ma anche fra le icone pop di quel tempo.
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Dettagli

2007
1 gennaio 2007
160 p., ill. , Brossura
9788860870414

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sergio
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la bologna che fu!

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Voce della critica

Alice disambientata ha la vocazione del libro-margine, che cresce, come una concrezione naturale, su un displuvio, quello tra "la fine delle ideologie" e la nascita dello "strano" movimento studentesco del '77. È l'occasione – cerniera della storia recente del paese, ma anche sua "soglia culturale" – a marcarne il destino: che è poi quello di ospitare situazioni desuete, contraddizioni, utopie e profezie, segnare punti d'arrivo e innescare inizi.
Chi ne è autore? Se lo firma Gianni Celati è perché ne è stato il "curatore", ovvero il promotore dell'idea (il corso universitario sull'Alice di Carroll e la letteratura vittoriana minore) e il suo esecutore. Anche Celati, va da sé, è autore, anzi è "l'autore", ma lo è tra gli altri del "collettivo A/Dams" (parodistica citazione della rivista "A/traverso" di Francesco "Bifo" Berardi), comprendente voci di studenti predestinati come Tondelli, Palandri, Pazienza, "Freak" Antoni; o di studenti oscuri, quali il contestatore con barba e tascapane o le affilate e noiose femministe. È legittimo definirlo libro, allora? Forse va meglio l'espressione "antilibro" proposta da Andrea Cortellessa nella postfazione alla recente riedizione dell'Alice. Anche perché in quelle lezioni, in quella scrittura, l'obiettivo è fare a pezzi qualsiasi ordine, qualsiasi individualismo autoriale, qualsiasi stigma dell'eroe tritatutto ("siamo tutti dei relais, delle staffette, che si passano qualcosa da un punto all'altro del territorio, identificandosi l'uno con l'altro"). Sogno, pazzia? Vicolo inevitabilmente cieco a cui non si dà via d'uscita?
Sembrerebbe di sì, visto il seguito: appena nato, nel marzo 1978 (lo pubblica "L'Erbavoglio" di Elvio Fachinelli), l'antilibro scompare. Nessuno lo nota. Il tempo, plumbeo, si richiude sulle sue pagine. Che però rilasciano attorno a loro un pulviscolo difforme e impensato. Cosa è accaduto? È stato soprattutto Marco Belpoliti a indicare in Alice disambientata, e più in esteso nel lavoro di Celati (il 1978 è l'anno del Lunario del paradiso), l'avvio di una nuova letteratura incline al privato: lo testimoniano Boccalone di Palandri, Altri libertini di Tondelli o Casa d'altri di Piersanti. Il breve "libro di teoria letteraria", insomma, con il suo prolungato attacco a qualsiasi dimensione ideologica mette in atto anche (ma non solo) "l'eliminazione del politico", aprendo le porte alla letteratura del riflusso. Se "la costellazione" di "storie" private e personali è la ricetta-strascico del "libretto-antilibro" a uso della generazione del "disimpegno", è peraltro innegabile che tutta l'operazione-Alice sta dentro l'itinerario di ricerca (o di fuga) di Celati. È il luogo dove si condensa l'aspirazione a trovare "un modo per non farsi catturare" che regge i suoi libri precedenti (soprattutto Comiche, e Le avventure di Guizzardi), e informa gli apparentemente diversissimi lavori successivi, a partire dai Narratori delle pianure.
Così Alice, "la bambina disambientata, spaesata, isolata, che fa i giochi da sola", diventa la modalità attraverso cui prendere di petto il mondo e farlo andare a gambe all'aria, allestendo lo "smembramento concettuale ed epistemologico" dei saperi (meglio la tassonomia fluttuante del bazar, come Celati afferma nel saggio inserito nella seconda edizione di Finzioni occidentali), che – afferma Cortellessa – rimanda a Benjamin e, ancor di più, allo Swift di Gulliver. Alice è la mina che fa deflagrare la famiglia e il partito, la vita consequenziale e ordinata degli adulti, il loro discorso che altro non è se non "una certa sonorità vuota per mantenere le distanze dagli altri". Ma Alice è anche, nello stesso tempo, il modo per rendere evidente come la fantasia sia un puntello alla realtà: non una modalità per aggirarla, ma una stampella per sorreggerla. Con Gilles Deleuze – e la sua Logica del senso, ma anche il Kafka scritto con Félix Guattari – Celati e i suoi studenti cercano la "deterritorializzazione" per trovare "intensità" perdute, le stesse che si ottengono attraverso l'animalizzazione.
In tal senso il "commento" alla storia di Alice, parallelo al manganelliano commento a Pinocchio, va in direzione opposta alle strategie della letteratura per l'infanzia, che invece insegnano "a evitare il fuori, l'estraneità, il pericolo, le contaminazioni". Inseguire Alice, entrare nel suo mondo capovolto, significa operare "la caduta nelle voglie", ovvero "la caduta nel basso e nel minore", facendo del corpo il luogo in cui si iscrivono le storie. È di certo intervento paradossale, esagerato, che schianta la narrazione, esposta al rischio – e al fascino – di essere "scritta in milioni di persone". Ma da qui, anche il Celati a venire – lo "scrittore solitario", il "wanderer stagliato nel paesaggio" – non si allontanerà.
  Andrea Giardina  

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