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recensioni di Luzzi, G. L'Indice del 2000, n. 07
Se dobbiamo credere - e non c'è motivo per dubitarne - alla onesta nota dell'autore, questa Antartide di Mussapi non è uno dei tanti istant books grandinati copiosamente in prossimità della (falsa) svolta del secolo-millennio dentro le ben guidate spire evenemenziali del serpente editoriale. Non lo è proprio in virtù del suo accorto e prolungato stato di incubazione e di attenzione documentaria. E questa è una cosa rara, che cioè i poeti si documentino coscienziosamente sulla storia. Ma, appunto, a me questa pare piuttosto un'opera di prosa che un'opera in versi, e cercherò di dimostrare il perché.
Esagera comunque un po' le cose Giuseppe Conte, il quale, firmando la bandella, convoca ciò che l'autore non ha avuto presumibilmente l'intenzione di imporre, e cioè un progetto allegorico-ideologico secondo cui, dietro una delle nobili tragedie attraverso le quali si è coronata la conquista del polo sud, si celerebbe appunto l'allegoria del Novecento, che "si è trovato stretto nella morsa del nichilismo e della propria idea di crisi". Sarebbe meglio, mi pare, lasciare queste verità, che so, a un Hobsbawm. Di fatto il discorso di Mussapi è molto meno ambizioso, e ciò va messo sul conto dei pregi: che cioè non si sia voluto unire al coro di alcuni poeti per così dire sbigottiti e spodestati, tentati di fornire qualche veloce lezioncina di filosofia della storia, naturalmente di stampo schiettamente spiritualistico (si sa che il corpo diviene raramente attrazione tematica per poeti maschi).
Dunque questo racconto in versi che Mussapi ci propone si potrebbe inscrivere nel genere enciclopedico-didascalico, genere che potrebbe tornare a vantare (perché no?) una sua funzione di traino anche pedagogico. Il tema è l'eroismo umano, la gara a distanza per il primato della bandiera nazionale sui ghiacci dell'estremo sud del pianeta. Vincerà, come sappiamo, la bandiera norvegese di Amundsen, precedendo di poco quella britannica di Scott. Ma è su un'altra impresa, occorsa alcuni anni dopo, che l'emozione di Mussapi si sofferma: quella di Shackleton e della sua sventurata nave Endurance (cfr. "L'Indice", 2000, n. 4), stretta in una irrimediabile, eroica bara di ghiaccio. Ci sono tutti gli ingredienti della tragedia, di cui Mussapi, buon esperto anche di scritture teatrali, sa fare uso: voce narrante, colpi di scena, fase agonica, dissoluzione, catarsi, e persino una forma moderna e mascherata di apoteosi.
Insomma non si tratta di un libro noioso. Si tratta, al contrario, di un racconto istruttivo, ben congegnato. Racconto? Eccone un esempio, filato da una allure assai diffusa: "Fu poi Francis Drake, il pirata, / a dimostrare che la Terra del Fuoco / non è un lembo del continente antartico, / ma solamente un gruppo di isole". E non si tratta di una eccezione, giacché tale è propriamente il costante tono medio di questa "poesia": sostanzialmente povera di energia interna, discorso che scivola via senza destare stupori linguistici, appagato della propria deperibile transitività. Non è un linguaggio sgradevole, tutt'altro. Ma è, irrimediabilmente, un linguaggio che non incide, che si dimentica: si ricorda la storia e si dimentica facilmente in quale lingua letteraria sia scritta. L'opera di poesia nell'epoca della sua riproducibilità prosastica: ecco forse il nuovo Benjamin da comodino, a maggior gloria della "comprensibilità" e della inesorabile omologazione che ne deriva.
(g.l.)
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