Quella del rapporto tra arte e fotografia è una storia di contaminazioni e furti, di suggerimenti e compenetrazioni, e non è una storia lineare, per due motivi: da un lato si è trattato di una relazione che ha assunto forme molto diverse, dal ricalco letterale e reciproco alla creazione, nella cultura occidentale, di un nuovo modo di concepire quell'esercizio sulla percezione che è stata storicamente la stessa pittura; dall'altro per l'eterogeneità, in un secolo e mezzo di storia, delle esperienze artistiche singole o collettive, che hanno di volta in volta affrontato in modi differenti l'idea di mimesis che la fotografia suggeriva. È certamente rimarchevole l'incontro, e speriamo il futuro dialogo, tra istituzioni culturali pubbliche come la Galleria nazionale d'arte moderna e l'Istituto nazionale per la grafica, cioè tra arti "alte" come la pittura e la scultura, e arti "basse" come sono state considerate la grafica e soprattutto la fotografia. Non è che un dialogo tra queste discipline già non esistesse, e sono proprio la mostra e il catalogo relativo promossi dai due enti a ricordarcelo: scopo dell'iniziativa è infatti quello di mettere in relazione le fotografie con le opere delle collezioni d'arte della Galleria, individuandone le connessioni. I suggerimenti sono molti. La fotografia contribuisce a metà Ottocento alla nascita del paesaggio in accezione moderna; allo stesso tempo rende i suoi soggetti (in particolare nei ritratti) con l'esattezza della scienza. Ma, soprattutto, vengono individuati fin dall'inizio una diversa qualità della luce, un taglio nuovo dell'immagine, pose meno teatrali delle figure umane, modalità che i fotografi condividono con pittori come Favretto, Celentano, Cabianca. E poi la fotografia elimina naturalmente il contorno, il disegno, proprio ciò che vanno facendo per alcuni decenni i macchiaioli e gli impressionisti, affascinati dalla percezione ottica. È un dialogo una dialettica molto più implicito che esplicito, e che nell'Ottocento già annuncia la sua composizione novecentesca, come spiega Marina Miraglia: la fotografia "viene sempre più imponendosi nei vari utilizzi della pittura, più per i meccanismi mentali che non per quelli materiali del proprio procedere"; e nel nuovo secolo conferma infatti il proprio radicamento nella mente degli artisti piuttosto che nei loro manifesti: è significativo che i futuristi italiani respingano la fotografia dei Bragaglia dal loro armamentario teorico, mentre il futurista Balla già ne aveva ampiamente metabolizzato i linguaggi nella sua opera pittorica. Sono piuttosto le altre avanguardie ‒ quelle europee ‒ a ridurre le distanze: con loro l'opera d'arte non è più semplicemente oggetto, ma idea. Dopo qualche decennio dalle drastiche provocazioni di Duchamp, la pop art e l'arte concettuale non si porranno nemmeno il problema: la fotografia potrà allora essere semplice materiale per la composizione, oppure l'opera stessa, oppure il mezzo della sua comunicazione (per l'arte perfomativa). Il volume dunque fa il punto su un tema storicamente critico e lo documenta con immagini spesso convincenti. Ma forse non è necessario cercare aderenze letterali tra pittura e fotografia: che la fotografia abbia influenzato in modo determinante la cultura non solo visiva tra Otto e Novecento si capisce anche dal suo rapporto, ad esempio, con la letteratura (su cui il libro fornisce, non del tutto coerentemente, un contributo): anche qui, un rapporto risolto meno sul piano delle dichiarazioni (si pensi alle riserve dei nostri veristi) che sul piano creativo. Per alcuni intellettuali, poi (come Proust o l'Antonioni di Blow up), la fotografia diventerà se non un'ossessione, un problema, un termine con cui non ci si può non confrontare per capire il mondo e l'individuo moderno. Infine, iniziative come queste, con i loro pregi e i loro limiti, servono a evidenziare il ruolo della fotografia nel pensiero contemporaneo e, allo stesso tempo, la difficoltà dei nostri studi nell'inserire l'immagine ottica in un discorso culturale complesso. Gabriele D'Autilia
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