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E siamo arrivati alla conclusione della saga dei Lungavista; Assassin’s Quest è infatti l’ultimo volume della trilogia, tradotto in italiano da P. B. Cartoceti per Fanucci col titolo Il viaggio dell’assassino. In realtà quest dovrebbe essere tradotto come ricerca; ma anche viaggio tutto sommato rende bene l’idea di quello che il lettore potrà trovare in questo terzo volume (se non in tutta la trilogia). Fitz infatti compirà un viaggio: un viaggio fisico, sicuramente, che lo porterà ben oltre le Montagne dei Sei Ducati, alla ricerca del suo re, ma anche e soprattutto spirituale. Ora, non immaginatevi che Fitz passi le sue giornate in riflessione con le gambe incrociate come un perfetto maestro yoga, non intendo di certo questo con viaggio spirituale. È più che altro la ricerca di un equilibrio interiore, un viaggio alla scoperta della sua anima e delle sue emozioni; un viaggio alla ricerca dei suoi desideri, un viaggio alla ricerca di sé stesso. Nella prima parte del libro Fitz viene lasciato completamente solo (dagli umani almeno, perché al suo fianco ci sarà quasi sempre Nighteyes, il suo lupo), libero di decidere in autonomia su cosa fare della sua vita. E Fitz sarà egoista e deciderà così di perseguire la sua vendetta. Una vendetta esclusivamente personale. Nella seconda parte del libro invece Fitz si renderà conto che non è quello il modo corretto di agire, che non riuscirà a farcela e quindi parte, assieme ad amici vecchi e nuovi, alla ricerca del suo re. Questa compagnia e questo viaggio mi ha ricordato vagamente un’altra compagnia, quella dell’anello. Robin Hobb rimane un’autrice che scrive troppo: anche in Assassin’s Quest ci sono alcuni capitoli piuttosto lenti e, se devo dirla tutta, anche un po’ inutili ai fini della storia. Capitoli che non fanno altro che rallentare il ritmo e allentare l’attenzione del lettore. Insomma Robin Hobb, meno descrizioni e più azione non sarebbe male. Anche il finale di per sé non ha un ritmo [continua sul blog]
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