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L’opera valida è quella che non finisce mai di dire, di essere, di manifestarsi: diversa e sempre nuova, su vari livelli espressivi, ad ogni “esplorazione” - indagine critica o semplice fruizione. È questo il caso di Assolo: la risultanza forte che emerge, sin dalla prima lettura, dalle 47 liriche che ne compongono e sviluppano il percorso. Un’altra toccabile evidenza, per chi già conosca le precedenti sillogi di Patrizia Pallotta (ad esempio Il dolce e l’amaro, del 2005), è che stavolta l’autrice sembra spingere decisamente sul pedale dell’astrazione, accentuando la naturale e congeniale “enigmaticità dell’incorporeo” che caratterizza la sua lettura del mondo. È il senso poetico dell’incanto che nasce da uno sguardo trasognato e oltrepassante, da una percezione che disincarna le cose per estrarne il cuore cosmico, trasponendole su un piano parallelo, di quintessenza. Una musica che - nella pienezza di una resa espressiva quanto mai efficace, abilmente orchestrata sulle alchimie dei passaggi tonali, degli accordi ritmici e degli impasti metrici, tra iuncturae di armonie classiche e tratti periclitanti di inquietissime sospensioni - innamora il mondo del mondo e rivendica alla poetessa la sua ancestrale, liquida funzione di “sirena incantatrice”. Sono molto frequenti i segnali di questa eterea, trepida, fugace - se pur incisiva - leggerezza che scontorna e libera gli oggetti, spalancando varchi per una geometria “astratta” che regna sopra un mondo parallelo, spiaggia mitica, dimensione “altra” che si raggiunge, forse, sulla cresta scintillante del suono e sull’onda estrema del tempo, È un invisibile telo disteso, come un quadrato senza angoli, fra istanti di vuoto e di pieno: intessuto di percorsi e intarsi mentali, architetture d’aria e scie di passi, muri di ricordi e di parole, ombre di silenzi e di emozioni. È il lungo, tortuoso, inquieto viaggio dell’anima. “Assolo”: ad solum, ovvero “secretum” e “soliloquium”. Discorso di se stessi al mondo, e al mondo di se stessi. Marco Onofrio
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