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Scrivere di malattia e di morte, soprattutto in poesia, significa correre il rischio di imbattersi nel patetico o nel retorico, di sforare in toni troppo striduli o forzatamente dimessi, di urtare per un eccesso di esibita sensibilità o esacerbato rancore l'emotività del lettore. E' un rischio che la poetessa torinese, trapiantata a Padova, Laura Liberale (1969) ha consapevolmente accettato come sfida, ed eluso attraverso consapevoli scelte contenutistiche e formali. La malattia del padre, la sua individuazione e cura da parte di asettici dottori ("E' davvero così certo/ di parlare del tumore di mio padre?") viene metabolizzata poeticamente ("adenocarcinoma/ un settenario, dottore, dunque cantabilissimo", "il cancro è una cometa/ la coda a cui attaccarsi per tornare"), soprattutto attraverso la rivisitazione affettuosa del rapporto con la figura genitoriale ("mio Assente, mio Narrante/ mio colossale Mito", " O luce che fai strada/ O fuoco che non bruci più ma guidi"). Il ricordo àncora a un passato che si vorrebbe poter rivivere nelle sue tenerezze ("Al luogo delle voci ritrovate/ c'arriverò, papà?/ La tua, la cara, con il suo corteggio"), o nella foto sullo sfondo marino che li ritrae insieme, "il padre e la bambina//...col sorriso/ identico e leggero", o nell'apparizione estiva nei luoghi dell'infanzia di un vecchio arrotino, e nuovamente nell'appellativo piemontese con cui il padre la chiamava: "garibuia". Alla fine e dolorosamente, il dialogo "lungo trentacinque anni" si chiude, con le ultime parole di lui : "Non fare quella faccia". E la poetessa commenta, ferita, commossa :"Nemmeno da morente/ vuoi rinunciare al ruolo". Eppure, "Se è con l'imperfetto che dovrò/ dirti d'ora in avanti", sarà proprio la poesia a compiere l'arduo miracolo di restituire una presenza, una voce, un accompagnamento non più materiale, ad assicurare una difesa che sia per sempre. "E dunque ancora mi proteggi da me".
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