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Ca' Corner della Ca' Granda. Architettura e committenza nella Venezia del Cinquecento
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Dettagli

2
1993
3 settembre 1993
224 p., ill. , Rilegato
9788831752916

Voce della critica


recensione di Rossi, M., L'Indice 1994, n. 4

Per la collana "Venetiae" di Albrizzi esce la monografia di (Giandomenico Romanelli dedicata a palazzo Corner, la Ca' Granda a San Maurizio, dopo che dello stesso autore erano apparsi i due studi su palazzo Cavalli Franchetti a San Vidal e, in collaborazione con Giuseppe Pavanello, su palazzo Grassi. In realtà, come risulta evidente dal titolo, l'attenzione dello studioso non si concentra unicamente sull'analisi della dimora realizzata da Jacopo Sansovino, ma ripercorre la storia di tre generazioni di Cornaro, dal Quattro al Cinquecento, nel loro trionfale percorso attraverso le vicende della storia e della politica veneziana, cercando di interpretarne l'ideologia che ispira le scelte di committenza artistica e, soprattutto, architettonica. L'autore sceglie allora un itinerario apparentemente estravagante che dalla preistoria tre-quattrocentesca del lotto sul Canal Grande, su cui sorgerà la Ca' Granda, tocca l'incompiuto progetto per la gigantesca Ca' del Duca, passa per la cappella funebre ai Santi Apostoli, prosegue verso la ristrutturazione di palazzo Lando a Sant'Angelo e la ricostruzione dell'altro palazzo Corner a San Polo a opera di Michele Sanmicheli, per ritornare a San Maurizio e all'incarico a Sansovino; da questo punto in poi le vicende della Ca' Granda restano al centro dello studio fino alle trasformazioni otto-novecentesche. In questo modo l'obiettivo dell'autore oscilla, anticipando gli eventi per raccontare cause e antefatti di scelte e progetti e imponendo al lettore di ripercorrere sulla propria carta mentale il giro organizzato, per ottenere un modello sinottico dello sviluppo di imprese contemporanee. La storia avvilente che ci viene raccontata si appoggia su un apparato documentario in parte inedito, la cui trascrizione si deve a Marta Tortorella. Alcune proprietà tra le quali è diviso il lotto prospiciente il Canal Grande sono acquistate nel 1459 dai fratelli Malombra per costruirvi una prestigiosa dimora, con una loggia con quattro colonne sulla facciata, tale da attirare l'attenzione di Zorzi Cornaro, membro tra i più rappresentativi di una famiglia già potente e ricchissima, destinata a celebrare fasti maggiori. Dopo che un incendio, paragonato a quello di Troia, distruggerà nella notte tra il 15 e il 16 agosto del 1532 il palazzo dei Cornaro a San Maurizio, non si può non concludere con l'autore che "le condizioni e i condizionamenti d'ambiente e le attese generali preparavano il terreno per un'impresa clamorosa". A questo punto, il montaggio proposto riproduce con efficacia lo svolgersi di un metodo di indagine storica che esplicitamente riconosce il suo debito nei confronti degli studi di Manfredo Tafuri su "architettura e committenza nella Venezia del Cinquecento" e, in particolare verso i contributi, anche recenti, in cui palazzo Corner "appare definito nelle sue qualità linguistiche, nei suoi significati ideologici, nella sua rilevanza urbanistica". La mano leggera con cui Romanelli applica questo tipo di analisi si rivela dunque nella riconsiderazione delle vicende della cosiddetta Ca' del Duca. Come una falsa partenza per la conclamata dichiarazione, tramite l'architettura, della potenza e del prestigio familiare, è quindi interpretato lo spezzone del palazzo a San Samuele, iniziato da Bartolomeo Bon forse su progetto degli stessi committenti, i fratelli Andrea e Marco Corner (il padre di Zorzi), tra il 1453 e il '58, e ceduto, già nel '60, al futuro duca di Milano, Francesco Sforza, in cambio della sua dimora a San Polo. Il progetto ispirato al recupero, in scala gigante, di una tipologia non gotica, anzi arcaica e autoctona ma a suo modo "classica" e autorevole, e il successivo ripiegamento su una soluzione assai meno impegnativa e programmatica sono ricondotti alle contingenti difficoltà politiche dei committenti, delineando un caso esemplare e precoce di quella vicenda accidentata tra tentativi, scarti e discontinuità che è la "ricerca del Rinascimento" architettonico a Venezia. Negli anni della più clamorosa affermazione politica della famiglia orchestrata da Zorzi, la rinuncia al trono di Cipro della sorella Caterina nel 1489 e la devoluzione del Regno alla Repubblica, l'immagine della potenza e del prestigio dinastico, rafforzati dall'atto eroico di amor patrio, sono affidati al classicismo aurorale della cappella funebre di Marco e Zorzi nella chiesa dei Santi Apostoli (sull'autore della quale Romanelli non si sbilancia, soppesando le ragioni di un'attribuzione tanto a Mauro Codussi che a Tullio Lombardo). Di lì a poco uno dei figli di Zorzi, il cardinale Francesco, rifletterà nelle sue scelte di collezionismo lo stesso aggiornato gusto antiquario, commissionando per il suo camerino ad Andrea Mantegna e successivamente a Giovanni Bellini i due monocromi con l'"Introduzione del culto di Cibele a Roma" e con la "Continenza di Scipione", legati entrambi al mito della gens Cornelia, da cui i Corner sarebbero discesi: se infatti la traslatio della statua della dea dal monte Ida a Roma, consigliata dai Libri Sibillini per scongiurare la minaccia Runica, poteva alludere alla recente traslazione del potere regale di Caterina dall'Oriente a Venezia, l''exemplum virtutis' raffigurato da Bellini del membro più rappresentativo dei Cornelii avrebbe riverberato sulla progenie veneziana tutta l'efficacia politica di un mito classico. Sarà proprio Francesco, committente anche di Giulio Romano e probabilmente in contatto, a Roma, già negli anni venti, secondo un'ipotesi attendibile dell'autore, con Jacopo Sansovino, ad accelerare l'incontro tra l'ideologia familiare e il linguaggio della maniera moderna, il più appropriato a esprimere il gusto e le ambizioni monumentali. Dopo i due incendi del '32 a San Maurizio e del '35 a San Polo, i fratelli del cardinale individuano infatti in Jacopo e poi in Michele Sanmicheli e Andrea Palladio gli artefici di un consono rinnovamento delle loro dimore: in particolare, tra il '37 e il '39, Sansovino è impegnato a definire, su commissione di Giacomo, il progetto per la riedificazione del palazzo che, finalmente, in prossimità della piazza e del bacino di San Marco, potrà configurarsi come reggia patrizia, e, allo stesso tempo, curia e cancelleria.
Cominciato probabilmente nel '45 ma non ancora terminato alla morte di Jacopo nel '70, il palazzo "con gran cortile coperto, et scoperto, con bellezze et ornamenti alla Romana, et con inventione accomodate all'uso comune", secondo la definizione di Francesco Sansovino, esibisce, non a caso, elementi comuni agli edifici marciani, la Zecca, la Libreria e la Loggetta. La volontà di imporre autorevolmente a Venezia una nuova tipologia architettonica ispirata agli esempi eroici del primo Cinquecento romano scarta, ancora una volta, soluzioni filologiche o diligentemente antiquarie, ma anzi persegue, con lo stesso gusto combinatorio sperimentato nella Libreria, l'emulazione del modello, con un occhio attento anche ad altre esperienze contemporanee: sarà da leggere in questa chiave la sovrapposizione delle finestre. fiancheggiate da mensole, alle edicole della facciata, forse suggerita dallo studio delle campate angolari della Sacrestia Nuova di Michelangelo, come già Tafuri aveva proposto, ricollegando il motivo (che comunque risulta invertito) al soggiorno fiorentino di Jacopo del '40. Di nuovo Sansovino è particolarmente sollecitato dall'alta retorica strutturale e decorativa che gli viene richiesta: riproduce così una loggia a tre arcate, trasformando l'ingresso per via d'acqua in un arco trionfale, e dispiega sulla facciata, in corrispondenza degli ordini superiori, un'ornamentazione scultorea di elmi e schinieri, scudi e turcassi, dovendo ribadire la nobile discendenza da una stirpe eroica. L'esperienza dello scultore interviene nella progettazione architettonica e alla scultura Sansovino affida, come nel caso della Libreria e della Loggetta (ma anche nella Zecca tramite l'intervento di Danese Cataneo) l'espressione eloquente dei contenuti ideologici. Dopo i saggi di Tafuri, della Howard e di Davis, fino a quello recente di Boucher sullo scultore, un Sansovino restituito appare anche dallo studio di Romanelli e questa volta con una simpatia senza riserve, dopo la secolare trascuratezza toccata in sorte all'opera di uno dei padri fondatori (perfino secondo Vasari) della maniera moderna.
Il palazzo, nel 1817, viene venduto al demanio e, pochi mesi dopo, subisce un altro incendio che distrugge buona parte del fianco occidentale e del corpo posto a nord del cortile e notevoli porzioni dell'ornato in pietra d'Istria. Immediata la ricostruzione che produce pesanti alterazioni dell'interno, destinato a ospitare gli uffici del governo; infine, con l'annessione di Venezia al regno d'Italia nel 1866, avviene il passaggio all'amministrazione provinciale, per il cui Consiglio, nel 1892-93, è costruito il padiglione che prospetta sul giardino. I due cicli che decorano il soffitto e le pareti del nuovo edificio sono allora affidati a Giuseppe Vizzotto-Alberti e a Vincenzo De Stefani e mi sembra molto opportuna l'associazione che a Romanelli suscita la retorica tribunizia dell'allegoria con Venezia regina e del lungo fregio con la processione dogale, pastiche storico tra Carpaccio e Veronese, con "i sogni imperiali e le velleità panadriatiche" dei quali si faceva banditore in quegli anni Gabriele D'Annunzio nel "Fuoco" e nella "Nave", a riprova della complessità delle suggestioni figurative che l'esperienza letteraria del Vate poteva filtrare e rifrangere.
Nel numero di settembre del 1992, Manfredo Tafuri, recentemente scomparso, in un'intervista di Gian Paolo Consoli, parlando del suo libro "Ricerca del Rinascimento. Principi, Città, Architetti", invitava il lettore a rimettere su percorsi che dall'architettura portano alla storia delle idee e della cultura.
"L'Indice" vuole ricordarlo attraverso le sue stesse parole, riproponendo un brano in cui Tafuri metteva in guardia contro le facili generalizzazioni che spesso inducono a porre in relazione fatti ed eventi al di fuori dei loro contesti storici.
"Per esempio, un piccolo tema per me particolarmente commovente e significativo: nel primo Cinquecento a Roma avviene la riscoperta di un tema antico che si ritrova sia nel Pantheon che nei mercati Traianei: le edicole o le finestre ad edicola legate tra di loro da una cornice. Jacopo Sansovino riprende questo motivo nella facciata di Palazzo Gaddi a Roma, riducendo questo legame ad una. fascia semplice; questo comporta una sorta di striatura della facciata: una facciata 'a fasce' che possiede grande erudizione, tensione verso il mondo antico. A Venezia Sansovino ricorda questo motivo e lo usa sia per una facciata, Villa Garzoni, sia per il prospetto laterale di un grande palazzo come Ca' Corner. Gli architetti veneziani, o meglio i capomastri o 'proti'' del Seicento e del Settecento, traggono da questo esempio di Palazzo Corner un tema che usano nella costruzione di tante facciate minori dell'edilizia veneziana, senza sapere assolutamente da dove provenga questo motivo. In questo modo camminando per Venezia è possibile osservare, con commozione, la durata di questo elemento, la continuità inconsapevole che lega il capomastro veneziano del Settecento con l'architetto del Pantheon".

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