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Ci sono diversi motivi che possono stimolare l'interesse di studiosi e appassionati per il recentissimo volume di Ferruccio Tammaro dedicato alla produzione sinfonica di Pëtr Il'ič Čajkovskij: non ultimo, il merito di aprire il panorama degli studi musicologici a un compositore spesso "incompreso" e non ancora abbastanza frequentato dalla critica italiana, fatte salve alcune intuizioni, brillanti come sempre, di Fedele d'Amico e un lungo ciclo radiofonico di Giorgio Pestelli per il centenario dalla morte. D'altra parte, anche la musicologia straniera per molto tempo non si è occupata seriamente e senza pregiudizi della figura umana e artistica di Čajkovskij; solo di recente il vento è cambiato grazie ai lavori determinanti di David Brown, Richard Tarukin e Francis Maes. In Italia il panorama delle pubblicazioni è stato a lungo quasi esclusivamente circoscritto a due testi seri e sempre utili, benché non più recenti: la monografia di Aldo Nicastro, ormai tuttavia difficile da reperire, e l'agile breviario di Rubens Tedeschi sul teatro musicale russo (I figli di Boris, 1980), tuttora costantemente ripubblicato da Edt; nel 1999 è poi apparso un prezioso volume di Mario Bortolotto, Est dell'Oriente (Adelphi), che anche a Čajkovskij dedica pagine illuminanti. Viene ora ad aggiungersi il testo di Tammaro, con il suo taglio analitico e circostanziato, che riesce comunque per molti versi anche a varcare i limiti tracciati dal suo stesso titolo, ristretto di per sé alle sole sinfonie del musicista, e si pone come contributo di ricerca ad ampio raggio.
Non a caso, infatti, il volume è diviso in due ampie unità corredate da un'esauriente appendice cronologica (delle sinfonie e della vita di Čajkovskij nonché dell'intera produzione sinfonica russa nell'Ottocento) e da una ricca bibliografia: la prima, dedicata alla figura del compositore nel contesto della Russia e dell'Europa fin de siècle, la seconda, volta a presentare in maniera puntuale e specifica le sei sinfonie, dalla loro genesi fin al dettaglio della loro analisi musicale e formale.
Se è indubbio il valore e la novità del percorso tracciato da Tammaro con l'esame dei singoli lavori čajkovskijani nella parte centrale del suo testo, paradossalmente, quella che dovrebbe essere una sorta di introduzione la presentazione generale del "musicista Čajkovskij" che apre il volume risalta in maniera lampante per ricchezza di materiali e originalità di metodo. In particolare, il lavoro del musicologo torinese risulterà ancora più prezioso se si considerano i limiti che hanno ostacolato per lungo tempo l'interesse verso il compositore russo, limiti legati al problema del reperimento di materiali e documenti, e poi certo accresciuti dallo scoglio linguistico: basti dire che in lingua italiana il volume di Alexandra Orlova (nella traduzione di Maria Rosaria Boccuni), con le dovute riserve, rimane l'unico referente per le lettere del compositore ad amici e parenti.
I nostri dubbi diretti al "collage-pastiche" di Orlova non possono essere mossi al criterio usato da Tammaro nel selezionare e tradurre ampi passi degli scritti čajkovskijani e nel contestualizzarli in una sorta di viaggio tematico nella biografia dell'autore e nel suo rapporto con le contingenze sociali e storiche. Un variegato arcipelago di riflessioni, dunque, che, rinunciando a una banale esposizione cronologica, riesce egregiamente a dipingere la caleidoscopica figura del musicista: il rapporto tra biografia e opera, la continua esigenza di una perfezione formale (che si traduce nell'adorazione del genio mozartiano) e il legame interdisciplinare con autori quali Dostoevskij, Tolstoj, Čechov e Proust sono solo alcuni esempi dei temi affrontati nel volume, che imposta così un vero e proprio fil rouge che conduce dritto sino alla centralità della sinfonia nella produzione del compositore. Come le sei sinfonie, parallelamente alle opere teatrali, cadenzano tutta la vita di Čajkovskij, così il libro si lascia guidare da un tracciato ben definito che individua in queste opere una chiara dimostrazione di quello spleen che pervade la musica strumentale alla fine dell'Ottocento, la sua crisi e la sua rinascita: "Le sinfonie di Čajkovskij sono pertanto una delle più chiare testimonianze di quella crisi fin de siècle, di quella perdita del centro e di quella voluttà nella sconfitta che pervadeva tanta cultura dell'epoca".
Se in modo provocatorio Tammaro parla di "sconfitta della sinfonia", allo stesso modo sottolinea che non si trattò di un "fallimento", ma piuttosto di un passaggio di testimone che ci condurrà fino a Mahler, al lungo addio del suo Adagio finale quasi modellato sull'Adagio lamentoso della Sesta e che sancisce definitivamente Čajkovskij come compositore chiave nella svolta verso il nuovo secolo: un ponte fra l'Oriente e l'Occidente, teso al passato ma inevitabilmente proiettato verso un'inconsapevole modernità. La posterità, come del resto fece Stravinskij, gli darà ragione.
Vincenzina C. Ottomano
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