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Questo ultimo libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania nel 1953, e solo oggi l'editrice Archinto ce lo propone con un'esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un'autobiografia, piuttosto una serie di illuminanti considerazioni sull'esistenza, sull'arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la propria missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: "Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende". Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori ("Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda."), è individualista ed eretico ("Io sono un anacronismo. Un uomo libero"), si allontana da ogni norma, "si accanisce a disobbedire", sempre in cerca di "un vero che non è quello degli altri". Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 "da una famiglia semplice e amabile", si sofferma sulle amicizie parigine degli anni '20, sugli incontri arricchenti e su quelli più conflittuali con artisti straordinari. Da tutti loro assorbe "un'audacia interna invisibile", che gli insegna "quell'insulto alle abitudini senza il quale l'arte ristagna e resta un gioco". Da allora Cocteau entra "in lotta contro se stesso e contro gli altri", ma solamente con l'intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere "l'estremo di sé", ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di un'energia irrazionale simile all'inconscio desiderio erotico, sapendo che "la libertà trova sempre la sua ricompensa".
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