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Il leitmotiv che attraversa queste pagine è un senso acuto di impotenza e incomunicabilità, nostalgia e rimpianto, isolamento e timore. Facilmente rilevabili già da una prima, superficiale lettura, in cui riscontriamo da subito il reiterarsi di una stessa preposizione (“senza”, ripetuto una decina di volte), degli stessi verbi (tremare, finire, sparire), di aggettivi che paiono rincorrersi (spezzato, schiacciato, inutile, vuoto). Anche i nomi, sia quelli astratti (buio, paura, silenzio, abisso), sia quelli concreti (stortura, taglio, crepa) sottolineano continuamente l’idea di una ferita immedicabile, di un distacco doloroso, di un addio definitivo. E se nella descrizione degli interni (cucine e camere disadorne, fredde) si citano finestre, vetri, porte, le vediamo serrate od opache, mai in grado di segnalare un passaggio, un’apertura; mentre l’immagine che più caratterizza l’arredo urbano è quella del tombino, che grigio e gelido ha il compito di coprire i rifiuti della città. Una Milano disumana, quella raccontata da Stefano Raimondi, sfregiata da «scavi aperti», in cui la «vita rasoterra» si trascina per inerzia, tra muri sordi, cantine, ringhiere, parchi desolati, passanti «dormienti»: una metropoli malata, che non offre scampo o ancore di salvezza. «Ci si guarisce così nelle città: / aspettando». In questo libro di prose che sembrano poesie, e di poesie cadenzate narrativamente, il cane solitario di una scultura che Alberto Giacometti descriveva all’amico Jean Genet è puro pretesto allusivo per Stefano Raimondi, essendo tutto interiore il cane che gli accerchia i pensieri e rode il cuore: scodinzola, ringhia, minaccia, tiene a bada, morde, annusa, insegue. Impietoso come ogni solitudine dopo ogni abbandono.
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