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Canto del popolo yiddish messo a morte
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Canto del popolo yiddish messo a morte - Yitzhak Katzenelson - copertina
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Canto del popolo yiddish messo a morte

Descrizione


Rinchiuso nel campo di internamento, il poeta ebreo polacco Itzak Katzenelson nell'autunno del 1943 inizia a scrivere il «Canto». Lo seppellirà dentro tre bottiglie tra le radici di una quercia, dietro il filo spinato del campo di Vittel, in Francia. Il manoscritto verrà ritrovato grazie alle indicazioni fornite dalla sopravvissuta Miriam Novitch e pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1945. Questa edizione è a cura di Erri De Luca che del libro dice: «Ho imparato lo yiddish per arrivare al "Canto". [...] Traduco il "Canto" perché è il canto dei canti, il vertice in poesia dell'esperienza della distruzione. [...] Nel "Canto" c'è la vita feroce che vuole resistere con parole proprie e sceglie per resistenza la poesia».
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Dettagli

2019
Tascabile
9 maggio 2019
93 p., Brossura
9788807903380

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Claudia
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I. Katzenelson era un intellettuale ebreo di origine bielorussa che, come tanti, si ritrova a dover fuggire dal piano di sterminio dei tedeschi. In quanto intellettuale una delle sue missioni è farsi testimone di quanto stava accadendo, di quanto stava subendo il popolo yiddish. Nel corso della sua prigionia compone questi 15 canti rinvenuti solo successivamente. Non ci sono parole per descrive la sofferenza e la crudeltà di ciò che "il suo popolo" ha subito. Il coinvolgimento emotivo è incredibile e resta il rammarico di non poter apprezzare la potenza di questi canti nella loro lingua originale, lo yiddish.

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alida airaghi
Recensioni: 5/5

Si può scrivere mentre si assiste a un genocidio, in attesa della propria fine, dopo aver osservato inermi la distruzione di un popolo, il martirio delle persone più care? A un poeta non rimane che un unico modo di esprimersi: l’urlo di dolore, di rabbia feroce, di protesta contro il destino e contro il cielo immobile, nella rievocazione commossa di chi ha perduto. Alle vittime innocenti immolate dalla furia tedesca, Katzenelson chiede, prima di sparire a sua volta, di alzare un grido che risuoni in eterno, scuotendo le coscienze dei posteri. Nei suoi versi ricostruisce la storia ebraica, a partire dal profetismo dell’Antico Testamento, cadenzato dalle implorazioni dei Salmi, già premonitore delle sofferenze del popolo eletto, per attraversare poi la diaspora, i pogrom medievali, e arrivare alle persecuzioni novecentesche, alla Shoah, al dolore collettivo dei giudei polacchi e a quello suo individuale: “Dolori voi v’ingrandite in me, crescete di misura / per quale tormento? Per trapanarmi dentro o per strapparvi via? / Non vi strappate via da me, dolori. Crescete dentro di me, state in silenzio, / zitti mentre mi lacerate, dolori miei che diventate grandi”. Katzenelson riscrive l’invasione nazista del ’39, la fuga disperata di intere popolazioni dalle proprie città, il tentativo di cercare scampo a Varsavia: quindi la reclusione nel ghetto con il terrore di una cattura improvvisa, il sospetto nei riguardi dei vicini, le delazioni reciproche, i rastrellamenti, le prime deportazioni, il freddo e la denutrizione degli scampati. Rivive il ricordo amaro della moglie adorata e dei due bambini più piccoli che non è riuscito a salvare, la rabbia contro i collaborazionisti e i neutrali indifferenti, il rimorso per la propria vigliaccheria incapace di ribellarsi. Tutto ciò viene espresso da lui con parole concitate, impetuose, prive di filtri.

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