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Ho trovato molto impegnativa la lettura di quest'opera di Kafka, ciò nonostante la lettura di alcuni capitoli ha prodotto dentro di me le stesse sensazioni di quello che considero il vero capolavoro di Kafka, ovvero "Il Processo". In questi capitoli vengono trasmessi al lettore i brani di intere conversazioni della nostra quotidianità, dove le continue "tesi" messe in atto dai personaggi diventano prima plausibili, poi contraddittorie, poi nuovamente plausibili. La prosa, pur essendo notevolissima, risulta spesso appesantita a causa dei lunghi periodi e delle complicate riflessioni dei protagonisti. Rimane un'opera densa di significati, corposa e molto strutturata dove, attraverso l'atmosfera livida del villaggio e di un castello, anche metaforico, irraggiungibile per il protagonista, si producono le tematiche care all'autore, quali il senso di angoscia del vivere quotidiano, la mancanza di chiarezza nei rapporti umani, la ricerca della verità e della giustizia, la lotta e l'accanimento per raggiungere uno scopo, il senso vanificato delle proprie azioni prodotto dai comportamenti dell'uomo coinvolto nei meccanismi della burocrazia ma, si vorrebbe dire, dell'uomo coinvolto nei rapporti con l'uomo e con le sue limitatezze. Un romanzo che merita senza dubbio un'attenta rilettura, per cogliere con maggiore chiarezza il senso ineludibile delle angosce tipiche del nostro vivere.
più di 5 anni sono passati dalla lunga analisi che precede queste mie poche righe. se il bravo commentatore dovesse capitare da queste parti di nuovo, potrebbe cortesemente illuminarmi sul significato della parola "plazhsqai"? (chiedo perdono in anticipo per la mia ignoranza) posso solo aggiungere che ho ri-letto IL CASTELLO pochi mesi fa, e che non provavo certe emozioni dalla lettura dei Karamazov... e che Delitto e Castigo mi è sembrato (ri-leggendolo poco prima del castello) mezzo gradino più in basso... ma naturalmente qui non parla l'esegeta, non sono altro che sensazioni... assurde
Che Franz Kafka fosse un autore difficile - difficile da leggere come da comprendere - , lo sapevo fin dall'inizio, sebbene non avessi mai intrapreso la lettura di alcuna sua opera prima de "Il castello". Vi assicuro però che è parimenti, se non oltremodo difficile immaginare la mia attuale condizione, ora che ho terminato la lettura di questi venticinque capitoli così affascinanti e paradossali. Di una cosa sono certo: che il romanzo è, per dirla con un termine inglese intraducibile in italiano, "disturbing", "very much disturbing". Non posso pertanto promettervi l'accurata profondità della mia analisi, e neanche l'assoluta correttezza della stessa, dato che il romanzo mi pare talmente complesso, così vicino all'indecifrabile da disilludermi fin da ora da certe e onnicomprensive soluzioni. Ma andiamo all'analisi vera e propria. Una caratteristica che salta subito agli occhi, anche al lettore meno critico, è la monotonia di fondo che pervade l'intero romanzo. Se si dovesse giudicare coi criteri pirandelliani della prefazione ai "Sei personaggi", si direbbe che "Il Castello" è un romanzo puramente "filosofico", mai "storico". La trama praticamente non esiste. Un po' come i beckettiani Vladimiro ed Estragone, K., il principale personaggio, si ritrova non si sa come e non si sa quando a dover svolgere in un villaggio gelido e paradossale l'attività di agrimensore, assegnatagli dal fatidico “Castello”, a cui il villaggio stesso è sottomesso. Queste le premesse. Immediatamente però, per K. cominciano le ostilità che segnano la reale natura di quello che inizialmente poteva sembrare un qualsiasi romanzo e che nello stesso tempo gli caricano la molla per quell'incessante e assurdo plazhsqai che non avrà più termine. E' proprio in questo vagare che K. intraprende con gli abitanti del villaggio quei dialoghi che costituiscono l'essenza del romanzo. Dialoghi assurdi, assurdi come il romanzo. Ma non nel senso beckettiano della parola. Innanzi tutto per le differenti caratteristiche dei due "assurdi": all'"assurdo pur
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