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Fra Cinque e Seicento le epidemie di peste si succedono in Sardegna a ritmi serrati. È la conseguenza della permeabilità e quindi della vulnerabilità dell'isola posta al centro della geografia e dei traffici marittimi del Mediterraneo occidentale. Con i marinai, i mercanti e con le merci viaggiano i topi e le pulci vettori della peste. La più devastante delle pestilenze è quella di metà Seicento, che irrompe nel momento più acuto della decadenza spagnola e che decima gli uomini spopolando una regione già in cronico debito demografico. La Sardegna, sempre in bilico fra il mondo spagnolo e quello italiano, funge da ponte nella marcia mediterranea della peste: dalle coste di Valencia nel 1647 fino a Napoli nel 1656 e a Genova nel 1657.Per lo storico la peste risulta un formidabile «rivelatore sociale e mentale»: affiorano così sentimenti, passioni, paure, ma in special modo emergono nuovi e antichi conflitti propri di una società caratterizzata dalla violenza. Sono conflitti fra poteri istituzionali rinfocolati dai problemi di governo che il male contagioso introduce; sono contrasti fra magistrature e popolo, quando le prime impongono regole sanitarie che turbano il corso ordinario della vita; sono tumulti popolari scaturiti da paure collettive e da sentimenti d'odio verso i ceti privilegiati che riescono ad assicurarsi la sopravvivenza.Di fronte ad un male incurabile e inarrestabile l'unica medicina efficace è quella della religione, che non cura i bubboni, ma allevia almeno le inquietudini dell'animo e prepara l'uomo barocco alla «buona morte».
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