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Il cinefilo probabilmente ricorderà di aver letto il nome di Robert Bober nei titoli di coda dei migliori film di François Truffaut, di cui è stato assistente. Questo è il suo primo romanzo (per il quale ha vinto un prestigioso premio letterario francese) e c'è di che essere grati al traduttore per aver saputo trasporre nella nostra lingua l'infinita gamma dei sentimenti connessi alla rappresentazione del problema storia-memoria. Oltre che di Truffaut, Bober è stato collaboratore anche di Georges Perec ai tempi di Récits d'Ellis Island (1980; Archinto, 1996), il che non è poca cosa. Una battuta, fra le tante, che sembra uscita da un carnet di Perec: "Grande? Si dice forse a un bambino che è grande? Non si dice mai a un bambino che è grande! Un bambino non è mai grande (...) un bambino è un bambino! Che cosa ha a che vedere l'intelligenza con un bambino visto che non sa ancora che cosa sia? C'è solo una cosa che un bambino sa bene: e cioè che non vuole crescere e che suo padre e sua madre si occupano solo di lui e basta!". S'aggiunga che se da Truffaut Bober ha tratto l'idea tutta parigina del pittoresco, che "è ciò che non sembra tale", da Perec si direbbe abbia recepito molto di più del semplice furore tassonomico o dell'etica del ricordo ("Io non sono affatto libero. Sono occupato e sono occupato dai miei ricordi (...) Io ho ricordi per tutto il resto della mia vita. Mi bastano"). Il lettore italiano sarà bene che sappia ciò che un risvolto di copertina troppo frettoloso non dice, e cioè che in questo romanzo, dietro il personaggio-bambino Georges, si nasconde lo stesso Perec, in una parte della sua biografia direi ignota allo stesso biografo David Bellos. Il libro parla di una Parigi ancora livida per le ferite della guerra. Siamo nel 1946. In un piccolo atelier di sarti, quasi tutti di origine polacca, si parla un francese impastato con lo yiddish, si divaga lavorando, nella convinzione, di derivazione talmudica, che non esista "niente di meglio che il lavoro per cambiare i pensieri". Tutti tragicamente segnati dalla deportazione, i lavoranti di Monsieur Albert e di sua moglie Léa cercano l'impossibile, e cioè si sforzano di immaginare il ritorno alla normalità. Intorno a loro Parigi stenta invece a liberarsi dai fantasmi di Vichy, i funzionari addetti allo smistamento nel campo di Drancy ritornano a occupare posti-chiave nell'amministrazione della capitale. Nondimeno ritorna la voglia di sorridere e di scherzarci sopra. Maurice Abramowitz, miracolosamente ritornato dalla Germania, accetta di essere soprannominato Abramauschwitz, ma vi è chi - come Charles, la cui famiglia non ha fatto ritorno, o la signora Andrée - non vuole che si scherzi su queste cose: "Passi che ci scherzino sopra i non ebrei, d'accordo, ma non qui nel nostro laboratorio; non tra ebrei che sanno". Dalla periferia di Parigi, a Monsieur Albert e a molti che lavorano nel suo atelier, o lo frequentano abitualmente, scrivono lettere bellissime alcuni bambini, che in attesa di fare rientro a Parigi trovano ospitalità in una casa di campagna adibita a raccogliere soprattutto quei ragazzi, come appunto Georges, per i quali la disparition dei genitori, su cui scriverà appunto Perec, è ben più di un evento anagrafico. Uno di questi ragazzini, Raphaël, che si aggirava nella sartoria, diventerà un famoso fotografo, oltre che autore di un diario dove continuerà ad annotare storie di vita, scritte sui muri, notizie di tombe profanate, ritratti di personaggi. Raphaël, che ha tutta l'aria di esser l'alter ego di Bober, ci accompagna fino ai nostri giorni, perché il romanzo si conclude con la sua visita al vecchio Charles in una casa di riposo che fa da sfondo a una Francia odierna in bilico fra rivendicazioni di laicità e nuovi precipizi razziali. Che c'è di nuovo sulla guerra? è uno straordinario libro che tocca il problema della Shoah con la finezza del miglior Perec. Che c'è di nuovo sulla guerra?, come W o il ricordo d'infanzia (1975; Rizzoli, 1991), è un romanzo che chiede uno sforzo non piccolo al lettore. Volendo parafrasare una battuta del suo personaggio Léon, Bober è convinto che per la letteratura - come per il teatro yiddish - "la vera concorrenza non è rappresentata dagli altri teatri, ma dal pubblico". Il che sarebbe come a dire che la concorrenza per uno scrittore di questi argomenti non è data dagli altri scrittori che scrivono sugli stessi temi, ma dall'insieme dei suoi lettori. Un bel problema di ricezione del testo. Bober condivide con Perec, e con molti altri scrittori anche di area americana, l'idea secondo cui vi è soltanto un modo di rendere letterariamente il tema del Lager: e cioè il parlarne mediante allegorie "prossime al silenzio" (la definizione è di George Steiner) o comunque attraverso la mediazione del superstite (del Remnant, direbbe Singer). In sé e per sé il Lager, per questo genere di scrittori, attiene alla sfera dell'indicibile e dell'irrapresentabile: se ne parla raramente in forma esplicita, si preferisce discorrerne utilizzando vie indirette, allusive. Bober si discosta dal suo maestro nella parte centrale del libro, meno sperimentale delle due che l'incorniciano (costituite, la prima, dalla trascrizione filologica del carteggio di Raphaël, la seconda da ampi stralci da un diario dello stesso Raphaël, scritto nel 1981-82). E si direbbe che Bober senta quasi una fisiologica necessità di venire fuori dalle contraintes di Perec, cercando di liberarsene ricorrendo alla provata liricità del suo altro grande modello, come suggerisce il fatto che Raphaël abbia le fattezze di Antoine Doinel.
recensioni di Cavaglion, A. L'Indice del 1999, n. 04
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