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Descrizione


Questa ricerca si propone di offrire un contributo di analisi sugli effetti dell'intervento pubblico in sanità. Il nostro sistema sanitario ha effetti ampi e diffusi sulla distribuzione del reddito, che però rimangono scarsamente visibili e quantificabili. Qui l'autrice li analizza considerando congiuntamente il lato del finanziamento e il lato della spesa, per cercare di evidenziare il rapporto tra versamenti effettuati e benefici ricevuti per categorie di contribuenti/utenti.
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Dettagli

1996
12 settembre 1996
260 p.
9788815055491

Voce della critica


recensione di Vineis, P., L'Indice 1997, n. 2

Mi chiedo se il ministro della Sanità abbia letto questo utilissimo libro di Nerina Dirindin, e se la sua lettura ne modifichi gli orientamenti politici.L'autrice è riuscita infatti in un'operazione importante, quella di esporre con grande rigore argomenti non semplici né immediati - come i meccanismi del prelievo fiscale - senza perdere di vista le implicazioni per le scelte di fondo della politica sanitaria.
Le prestazioni sanitarie non possono essere equiparate a qualunque altro bene soggetto a transazioni economiche sul mercato. Basti pensare che il 50 per cento della spesa sanitaria va a favore del 5 per cento della popolazione, i soggetti affetti da malattie croniche o disabilitanti; se questi stessi individui - in assenza di una politica redistributiva solidaristica - dovessero provvedere da sé, andrebbero facilmente in bancarotta. La discussione sulle modalità di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), anche nei suoi aspetti più tecnici, non può non fare riferimento al dilemma tra politica redistributiva-solidaristica e acquisizione del bene-salute sul mercato. Secondo l'impostazione solidaristica, i prelievi per il Ssn sono "imposte a tutti gli effetti" (entrate tributarie da commisurare alla capacità contributiva); in tal caso il sistema impositivo vigente viene considerato imperfetto perché non generalizzato a tutti i contribuenti e "regressivo" (come vedremo oltre).
Secondo il punto di vista del mercato, invece, il prelievo è un "contributo" (un prezzo) in senso stretto, che allora dovrebbe essere rapportato al costo medio della prestazione goduta dal singolo individuo.Associazioni di liberi professionisti, per esempio, hanno usato quest'argomentazione per ricorrere contro la "tassa sulla salute" e aderire al referendum del movimento federativo radicale con l'obiettivo di cancellare l'obbligatorietà dell'iscrizione al Ssn.Per esprimersi più chiaramente, se il referendum radicale avesse vinto, quel 5 per cento di cittadini a favore dei quali viene erogato il 50 per cento della spesa sanitaria dovrebbero contrarre costose assicurazioni per contribuire alla copertura delle spese reali di cui si avvantaggiano.
Ma il Ssn non è neanche, tuttavia, un sistema solidaristico puro, in quanto il prelievo fiscale non è progressivo, e vi sono ampie fasce di evasione: come fa notare Dirindin, il governo reagì alle proteste nei confronti della tassa sulla salute come ha fatto in altre occasioni simili, attraverso l'"implicita accondiscendenza all'evasione".
Il contributo per il Ssn è fissato al 10,6 per cento della retribuzione imponibile per i lavoratori dipendenti con redditi inferiori ai 40 milioni, e al 4,6 per cento per la quota di reddito tra 40 e 150 milioni; al 6,6 per cento per i lavoratori autonomi con reddito annuo sotto i 40 milioni e al 4,6 per cento per la quota di reddito tra 40 e 150 milioni l'anno. Perché si sia arrivati a questa impostazione regressiva è spiegato chiaramente dalla Dirindin: si è infatti attuato un compromesso tra il rischio di perdere un'importante quota di contribuenti tra le fasce alte di reddito - che pretendevano un contributo proporzionale al costo delle prestazioni effettivamente godute - e la volontà politica di perseguire coerentemente le finalità di un servizio sanitario universale e solidaristico.
In questo compromesso ha giocato un ruolo importante una sentenza (431 del 3-12-1987) della Corte Costituzionale, che respinse le accuse di presunta illegittimità della struttura regressiva delle aliquote, sostenendo che il contributo era "tuttora assicurativo" (cioè commisurato al costo delle prestazioni godute).Tuttavia, la Corte riconosceva che la completa fiscalizzazione degli oneri di malattia dovrebbe essere un'"aspirazione tendenziale di fondo".Oltre a rilevare la regressività dei contributi e le discriminazioni a carico di certe categorie di contribuenti, la Dirindin muove altri rilievi all'attuale sistema di finanziamento del Ssn: la scarsa visibilità, considerato che i contributi sono trattenuti alla fonte per i lavoratori dipendenti e si perde dunque consapevolezza della loro entità e destinazione specifica, e al contempo la scarsa trasparenza del sistema nel suo insieme, considerata la complessità della normativa.
Nonostante le simpatie che si possono avere per un sistema di finanziamento solidaristico interamente affidato a un'imposta sul reddito, è innegabile che esso produce alcuni effetti negativi: con un diritto alla tutela completamente slegato dagli obblighi contributivi, si affievolisce la percezione da parte degli utenti dei costi dei servizi utilizzati, e si genera un'eccessiva crescita della domanda di prestazioni, slegata dai bisogni e dall'efficacia intrinseca.
Attualmente, il Ssn italiano è finanziato circa per il 50 per cento tramite il prelievo contributivo, e per il restante 50 per cento tramite la fiscalità generale.La spesa sanitaria pubblica, che ha avuto un forte incremento negli anni settanta-ottanta, mostra ora un rallentamento, che è legato in realtà a un fenomeno di trasferimento dalla spesa pubblica alla spesa privata; questo fenomeno è in parte legato a una strategia esplicita, di estensione della compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini (ticket).
Dopo avere considerato, approfonditamente e con rigore, i motivi di iniquità sul versante del finanziamento del Ssn, Dirindin passa a considerare l'utilizzo differenziale delle prestazioni a seconda dei ceti sociali.Esiste un'abbondante letteratura da cui risulta che i ricchi sanno usare meglio le prestazioni, in particolare quelle specialistiche, mentre i poveri ricorrono più spesso alla medicina generica e a soluzioni palliative.Il ricorso alle prestazioni sanitarie, inoltre, è relativamente indipendente dalle condizioni economiche per le persone malate, mentre è elastico rispetto al reddito tra gli individui sani (un aspetto da considerare attentamente a proposito della prevenzione).
Tutto questo fa sì che all'iniquità del sistema dei prelievi si sommi una parziale "redistribuzione negativa", sul versante dell'utilizzo del Ssn, del ricorso alle prestazioni.Per meglio dire, il Ssn italiano allo stato attuale produce benefici che vanno a favore di coloro che avrebbero difficoltà a procurarsi le stesse prestazioni sul libero mercato.Al contempo, tuttavia, a fronte di un'ampia variabilità dei processi di cura, i più svantaggiati ricevono prestazioni di livello qualitativo inferiore rispetto al resto della popolazione e soprattutto ad alcuni sottogruppi sociali.
Un altro argomento affrontato dal libro, su cui non voglio qui entrare nel dettaglio, è un esame più analitico della spesa sanitaria, per esempio a livello geografico, e del ruolo svolto dalla corporazione medica nell'influenzare l'allocazione delle risorse. Come è noto, l'Italia ha 4,7 medici per 1000 abitanti, il doppio degli Stati Uniti e 3 volte il numero del Regno Unito.Questa "pletora" medica è almeno in parte l'effetto delle pressioni di categoria.Basti pensare all'ampliamento dell'"età pediatrica", che non ha altra giustificazione se non contrastare la riduzione numerica dei bambini e frenare la caduta delle remunerazioni dei pediatri.
L'ultima parte del libro è relativa ai mutamenti in atto nel Ssn. Dirindin mette in luce le difficoltà e le contraddizioni di questi mutamenti, come lo squilibrio esistente tra le preoccupazioni per il contenimento della spesa e lo scarso impegno delle categorie professionali nel valutare l'appropriatezza e l'efficacia dei processi di diagnosi e cura. Problemi come la regionalizzazione del Ssn, l'introduzione di livelli uniformi di assistenza e l'"aziendalizzazione" delle strutture sanitarie sono stati solamente scalfiti o addirittura semplicemente enunciati.
Inoltre si tratta di argomenti ambivalenti, che possono essere affrontati in modi diversi e con implicazioni antitetiche: l'"aziendalizzazione", per esempio, se interpretata in modo rigidamente economicistico può avere come conseguenza il perseguimento di obiettivi di profitto aziendale incompatibili con un altro obiettivo, quello dei livelli uniformi di assistenza.Le aziende ospedaliere, o almeno alcune di esse, sembrano già orientarsi - seppure con incertezze e contraddizioni - verso l'erogazione di prestazioni redditizie sul piano economico ma non necessariamente essenziali o efficaci.
Un discrimine molto chiaro che dovrebbe essere introdotto è quello tra un sistema sanitario sobrio, che seleziona attività diagnostiche e terapeutiche di provata efficacia (e interpreta l'aziendalizzazione principalmente come controllo di qualità ed eliminazione degli sprechi), e un servizio improntato invece alla frammentazione di erogatori tra loro in competizione, non sempre cristallini sulla reale utilità di ciò che offrono ai "clienti".Un esempio lampante di ciò che può essere fatto per migliorare la qualità e al contempo razionalizzare la spesa è il lavoro svolto dalla Commissione Unificata per il Farmaco (Cuf) negli scorsi anni.

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