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Nella scena finale del Simposio platonico Socrate discute con il poeta comico Aristofane e con il poeta tragico Agatone su un interrogativo singolare: può la stessa persona scrivere sia commedie sia tragedie? Non è certo l'argomento adatto da affrontare nel cuore della notte, dopo numerosi calici di vino - tant'è che Aristofane e Agatone cadono addormentati. Eppure la conferma della convinzione socratica che colui che scrive tragedie può anche scrivere commedie esiste: ce la fornisce il dramma satiresco, quel genere teatrale che aveva il compito di rinfrancare l'animo degli spettatori che, seduti sugli scomodi gradini del teatro di Dioniso alle pendici dell'Acropoli, avevano appena assistito alla rappresentazione di tre tragedie. Ognuno dei poeti tragici ammessi a partecipare al concorso delle Grandi Dionisie, che si teneva ogni anno all'inizio della primavera, presentava infatti quattro drammi: tre tragedie, che potevano essere più o meno collegate tra loro, e un dramma satiresco, una sorta di "tragedia scherzosa" che consisteva nella versione spiritosa di una nota vicenda mitica e derivava il suo nome dalla presenza di un coro di satiri.
Dei tre grandi tragici ateniesi, Eschilo era considerato il miglior autore di drammi satireschi; pur non essendo sufficienti a confermare il giudizio positivo degli antichi, i papiri che conservano ampie porzioni di due drammi satireschi (i Pescatori con la rete e gli Spettatori ai giochi istmici) mostrano un Eschilo molto diverso da quello a noi familiare grazie alle tragedie. Lo stesso vale per Sofocle: pure l'autore dellÆEdipo re eccelleva nella stesura dei drammi satireschi, come dimostrano i Cercatori di tracce, anch'essi in parte conservati da un papiro di Ossirinco, che raccontano le imprese del piccolo Hermes, capace di rubare le mandrie del fratellastro Apollo e di inventare la lira.
Per un curioso scherzo della sorte, l'unico dramma satiresco a noi giunto attraverso la tradizione manoscritta appartiene all'autore che più appare lontano dall'universo di un simile scherzoso genere drammatico: il Ciclope euripideo, che traspone in chiave comica l'avventura più celebre dell'Odisseo omerico, sembra infatti scritto da un autore ben diverso da quello che altrove racconta l'atroce infanticidio di Medea, l'incomprensibile follia di Eracle, l'inconsolabile disperazione delle mogli degli eroi troiani in attesa di essere portate come schiave in terra greca.
Euripide immagina che, sbarcando nell'isola dei giganti monoculi, Odisseo non vi trovi soltanto il crudele Polifemo: alle dirette dipendenze del Ciclope c'è infatti Sileno, il fido compagno di Dioniso, costretto a prendersi cura del gregge di Polifemo e a tenere pulita la sua spelonca. La vita di Sileno e dei suoi compagni satiri è dura: lontani da Dioniso e dalle sue feste, prigionieri in quella terra inospitale, essi soffrono soprattutto per mancanza di vino. Grande è quindi l'entusiasmo del vecchio satiro quando apprende che Odisseo porta con sé la bevanda più famosa del mondo greco, il vino prodotto da Marone, talmente forte da dover essere mescolato con venti parti d'acqua. Con l'arrivo improvviso di Polifemo, la vicenda prende una piega tragica: Sileno tenta di farsi bello agli occhi del suo padrone accusando Odisseo di aver cercato di rubare il gregge del Ciclope; questi rifiuta le offerte amichevoli di Odisseo e minaccia di ucciderlo insieme ai compagni. A salvare la pelle dell'eroe di Itaca è, come nel poema omerico, il vino: Odisseo fa ubriacare il Ciclope e, con l'aiuto dei satiri, lo acceca, conquistando la libertà per tutti quanti.
In effetti, intorno al vino ruota tutto il dramma: il vino risveglia in Sileno e nei suoi compagni il ricordo della felicità perduta e li spinge - in modi diversi - a collaborare con Odisseo; il vino permette al poeta di giustificare la presenza dei satiri - strettamente legati al dio che gli antichi veneravano come lo scopritore della bevanda - all'interno della vicenda; il vino è, infine, un vero e proprio deus ex machina, in tutto e per tutto simile alle divinità che nelle tragedie euripidee risolvevano i complicati intrecci provocati dai personaggi.
A condannare il Ciclope è infatti il vino, e per due ragioni: la prima, evidente, perché Polifemo ne beve troppo, e s'ubriaca; la seconda invece è più sottile, e riguarda le modalità con le quali egli beve. Convinto dall'astuta lingua di Odisseo, Polifemo rinuncia all'idea di invitare gli altri Ciclopi a bere con lui e finisce così per tracannare da solo il nettare divino, contravvenendo alle regole auree del simposio, che prevedevano che il vino dovesse essere sempre gustato in compagnia: la sbornia e il conseguente accecamento sono in definitiva la punizione di Dioniso nei confronti di chi (per ignoranza e per ingordigia) non è capace di fare buon uso del suo dono all'umanità.
Questa antifrastica celebrazione delle virtù "conviviali" è il frutto più recente della benemerita collana intitolata "Il convito", fondata quasi vent'anni fa da Maria Grazia Ciani e oggi da lei diretta insieme a Guido Avezzù. E ne rispetta i conosciuti pregi, perché nel Ciclope di Rossi e Napolitano il lettore di oggi trova tutto ciò di cui ha bisogno: un'introduzione che lo guidi nei segreti di questo singolare genere letterario; una traduzione che coniughi chiarezza ed eleganza; un ricco commento che gli permetta di comprendere tutte le sfumature di questo testo davvero unico.
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