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“La città del cordoglio” è un capolavoro. Questa è una affermazione iperbolica per chi non riesce a percepire il gusto misterioso e sfuggente dell’ovvio. Sembra inoltre una considerazione influenzata da una visione soggettiva. La recensione oggettiva è un’invenzione ridicola, o peggio, un’illusione, ancor di più ridicola. Il romanzo di Frank Iodice è talmente realistico da sembrare un’allucinazione. Siamo nel territorio della realtà, dell’indicibile dunque, e parlarne è inevitabilmente paradossale e metaforico. Queste pagine ci conducono, sin dall’epigrafe di Joseph Roth, sin dalle primissime parole dell’incipit, in un dolce inferno. È la storia raccapricciante e tenera di Ninù, un marinaio approdato finalmente a terra, spinto sulla costa dal necessario ciclo di nascite e morti, qualsiasi esse siano. È il racconto del ritorno di Ninù e della sua avventura d’amore con Lena, una donna la cui bellezza traspare solo agli occhi dei veri amanti e di coloro che sfiorano la disperanza. Lena è una pittrice di dipinti vivissimi, di enormi spazi, di foreste rosse e gigantesche creature mostruose. Con “La città del cordoglio” ci immergiamo negli umori di un disfacimento magmatico, nel dolore di un segreto, nel sapore del sangue e nel sentore di latrina, dentro bagliori provenienti dall’abisso e dall’agonia, in una Napoli intima, del tutto estranea ai vezzi stereotipati di tanta letteratura e del cinema italiano e statunitense. Nelle pagine di Frank Iodice giungono come angeli, custodi di questa scrittura tra sottosuolo, terra e cielo, Roman Gary, Bataille, Suskind, Curzio Malaparte. “La città del cordoglio” è infine, oltre il tumulto delle emozioni, un romanzo sulla compassione. “Gli alberghetti del centro si somigliano. Ninù aveva dormito in diversi posti durante gli scali. In tutti, aveva ritrovato un elemento comune: la pietà delle cose. Lo commuovevano soprattutto le posate sui tavolini per le colazioni.”
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