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recensioni di Collotti, E. L'Indice del 2000, n. 12
La storia degli ebrei a Trieste è parte importante della storia del-
lo sviluppo economico del porto adriatico ma è anche, soprattutto dagli ultimi decenni del Settecento, un frammento di grande rilevanza delle vicende dell'ebraismo nei territori asburgici e dei rapporti con i correligionari dell'area mitteleuropea. Punti di riferimento erano Vienna, Praga, Budapest, crocevia come Trieste di un movimento migratorio all'interno dell'impero o proveniente da altre aree dell'Europa orientale (specie dall'impero zarista), destinato nei decenni successivi a gravitare sempre più verso Trieste via via che questa assumeva anche la funzione di porto di transito in direzione delle rotte orientali e segnatamente del Vicino Oriente. Una complessità di situazioni e di intrecci etnici e culturali che rende questi sviluppi particolarmente stimolanti, come risulta dal bel libro di Tullia Catalan, di prima tappa di un percorso di studi che sta rinnovando radicalmente conoscenze e metodi di ricerca di questa componente della società triestina.Lo dimostrò un paio di anni fa la notevole mostra Shalom Trieste: gli itinerari dell'ebraismo, promossa dal Comune con la partecipazione determinante appunto di Tullia Catalan.
Per molti aspetti Trieste fu un laboratorio.Già i privilegi di Maria Teresa nel 1771 avevano dimostrato l'interesse a legare la sorte degli ebrei alla fortuna economica dello Stato asburgico; nel 1781 le patenti di tolleranza di Giuseppe II ("a livello europeo [...] il primo documento ufficiale dell'avvio del processo di emancipazione civile") esplicitavano il progetto politico di inserire gli ebrei nello sviluppo economico, finanziario e commerciale dello Stato per promuoverne l'integrazione e successivamente l'assimilazione nonché "una auspicabile conversione al cattolicesimo". Giustamente l'autrice sottolinea come lo scopo della patente non fosse quello di realizzare l'eguaglianza delle confessioni, ma di proclamarne la tolleranza a condizione che assolvessero a determinate funzioni. Di fatto e di diritto la piena emancipazione civile degli ebrei sarebbe stata datata al 1867, ma essa si era andata nel frattempo aprendo la strada con le tappe intermedie delle ripetute occupazioni francesi del Litorale e del 1848. A Trieste le tappe dell'emancipazione coincisero con l'afflusso di ebrei di nuove provenienze, che modificarono sensibilmente la composizione etnica, sociale e religiosa della comunità locale. Gli stessi fattori che avrebbero reso più rapido (nel caso dei ceti abbienti) o più lento (negli strati più poveri) il processo di integrazione nella società urbana. Come puntualizza Tullia Catalan, "nella prima metà dell'Ottocento l'ebraismo triestino era costituito da una minoranza azkenazita, presente da secoli in città e composta da famiglie provenienti dall'Europa centrale, e da una maggioranza di ebrei sefarditi, di origine italiana, giunti nell'emporio durante il XVIII secolo e nei primi anni del XIX". Una situazione messa in evidenza anche dallo scarso uso dello yiddish, soppiantato come lingua franca dalla lingua italiana anche nei rapporti tra correligionari.
Il filo conduttore di questo libro è rappresentato, nel contesto dei mutamenti istituzionali, dalla trasformazione dell'identità ebraica che accompagna il processo di integrazione. Una trasformazione che trova espressione tra l'altro nella vita interna della comunità e nel rapporto che i singoli individui ebrei stabiliscono con il loro organismo comunitario (anche di rottura e di abbandono, come è avvenuto di frequente soprattutto nei momenti in cui maggiore è stata la spinta all'integrazione, e non solo necessariamente nei casi in cui questa è stata forzata), aspetti tutti che trovano particolarmente attenta e sensibile l'autrice.Il capitolo settimo, che analizza i Percorsi educativi interni ed esterni alla comunità, rappresenta un momento esemplare delle implicazioni problematiche della ricerca. Basterebbe pensare al significato dell'educazione femminile sotto il profilo dell'eman-cipazione della donna, o alla tendenza a optare per la scuola pubblica da parte dei più abbienti, che ebbe il duplice risvolto di qualificare la scuola ebraica come servizio a vantaggio dei più poveri della comunità e di favorire l'identificazione dei giovani che frequentavano la scuola pubblica con gli ideali dell'irredentismo.
Nel passaggio dall'Otto al Novecento la problematica dell'identità ebraica assunse una fenomenologia assai complessa.Se in generale si può parlare di un processo di politicizzazione nei comportamenti degli ebrei, che saranno sempre più spinti all'integrazione (concetto che l'autrice preferisce giustamente a quello, abusato, di assimilazione, più generico e al tempo stesso meno suscettibile di esprimere adeguatamente i diversi livelli di integrazione in contesti diversi e in in-
dividui diversi) nella società maggioritaria, anche Trieste si rivela particolarmente sensibile alla pressione di fenomeni politici che appartengono ormai all'età contemporanea: il nazionalismo e l'antisemitismo moderno, il sionismo. Uno spettro di prospettive cui corrispondono comportamenti assai diversificati. Se l'antisemitismo spinge molti ebrei all'integrazione e il nazionalismo sollecita l'adesione a un'appartenenza nazionale più forte di quella religiosa, il sionismo per parte sua propone con forza il senso di una doppia identità nazionale. Altrettanti aspetti di quella "separazione fra religione e sfera pubblica-politica" che all'inizio del Novecento era la cifra caratterizzante anche dell'ebraismo triestino. Il processo di integrazione, che l'autrice riesce a evidenziare attraverso l'esemplificazione di determinati nuclei familiari "nei suoi vari stadi attraverso le generazioni", ebbe (come altrove) tra i suoi indicatori più espliciti l'incremento dei matrimoni misti, mentre l'abbandono della religione dei padri non si risolse prioritariamente in forme di conversione bensì nello stato di chi rimase al di fuori delle confessioni (konfessionslos).
Alla vigilia della Grande Guerra l'ebraismo triestino viveva le lacerazioni di una società scossa dalla crisi incipiente dello Stato plurinazionale: l'ala irredentista, che si sarebbe aggregata successivamente al fascismo per poi subire l'offesa delle leggi del 1938 e la deportazione della "soluzione finale", attestò in prima persona la sconfitta dell'abbandono dell'identità ebraica ad opera del nazionalismo trionfante, che d'altronde non avrebbe risparmiato neppure il movimento sionista, incapace dopo la guerra, l'annessione all'Italia e la scomparsa della duplice monarchia, di svolgere un ruolo di forte rivendicazione dell'identità ebraica.
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