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D'Annunzio in prosa
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Dettagli

1993
1 gennaio 1993
272 p.
9788842514022

Voce della critica

VALESIO, PAOLO, Gabriele D'Annunzio. The Dark Flame

BARILLI, RENATO, D'Annunzio in prosa
recensione di Franci, G., L'Indice 1994, n. 6

I clamori legati alle celebrazioni del cinquantenario della morte di Gabriele D'Annunzio si sono da poco spenti, lasciando dietro di sé alcuni saggi ed edizioni critiche che aiutano a collocare l'opera del "Vate" al suo giusto posto nella tradizione italiana ed europea tra fin de siècle e Novecento. Fra questi, il volume di Paolo Valesio "The Dark Flame" è senza dubbio uno dei contributi più impegnativi, dove il critico bolognese (da anni docente di letteratura italiana all'Università di Yale) riesamina il pensiero filosofico oltre che la produzione letteraria di D'Annunzio, favorendone una più meditata comprensione e un doveroso apprezzamento del suo valore teorico ed estetico. Una rivalutazione, dunque non solo del poeta D'Annunzio ("poeta" sempre, anche in prosa), ma anche di un D'Annunzio "principe della modernità" accanto a Nietzsche e Wilde; Yeats e Proust, dove il discorso spirituale e quello secolare si intrecciano indissolubilmente con una cura delle parole che usa la tradizione, ma non disdegna l'avventura sperimentale. Valesio ha iniziato la sua carriera accademica come studioso di linguistica e di retorica, ma di una retorica molto particolare, come è evidente nel volume "Ascoltare il silenzio" (Il Mulino, 1986) che sviluppa la pubblicazione uscita negli Usa nel 1980, "Novantiqua", e in cui Valesio esplora i limiti della retorica integrando filologia e filosofia. Ed è la stessa, incessante, sperimentazione sui limiti della lingua e sulle vette della parola che egli ricerca nell'opera di D'Annunzio.
Uno dei punti più controversi nel recente dibattito su D'Annunzio è la sua collocazione rispetto alla figura del dandy fin de siècle. Certamente è di dandismo che si può parlare a proposito di D'Annunzio e del suo rapporto con la Decadenza, anche se Valesio avanza, a questo proposito, alcune riserve e preferisce usare il termine 'declension' (declinazione, caduta) quando pone un momento della poetica dannunziana fra il cosiddetto Decadentismo e gli inizi della modernità, laddove l'artista vive consapevolmente la tragedia della caduta dell'immaginazione, le ultime propaggini del sublime. Sia Wilde, il dandy per eccellenza della fin de siècle, che D'Annunzio vivono sul limite, fra due mondi. Ma il primo vive il suo dandismo nella logica della "separatezza", offrendosi solo all'élite dei suoi simili secondo il paradigma del rispecchiamento di Narciso. L'altro, nella logica della "totalità", si offre alle masse e, facendo il salto del secolo, cerca di conquistare un nuovo pubblico per ampliare i confini della letteratura e dell'arte. Entrambi dandy-esteti, essi osano un'ultima operazione di unità fra arte e vita: operano cioè una sostituzione nello scambio fra reale e immaginario, e tentano un'inversione fra la linea progressiva del tempo come "Kronos" e l'attimo eterno della bellezza ideale, fissato nel "Kairòs". Unità di arte e vita che si realizza nella figura dell'artifex dannunziano: in primo luogo egli deve compendiare tutto il passato e il presente della bellezza e dell'arte; in secondo luogo deve essere il profeta della liberazione futura riscattando entrambe in una nuova forma. È la capacità di usare il linguaggio al meglio delle proprie possibilità espressive - l'arte divina della parola, dove si imprime il segno luminoso dell'idea, cioè lo stile - ma è contemporaneamente la consapevolezza della sua vanità e la necessità della maschera, del gioco e dell'ironia.
Nulla toglie, a nostro parere, alla grandezza di D'Annunzio l'apprezzamento dei vari momenti, delle facce diverse che formano la sua personalità artistica, e anche Valesio riconosce che in lui c'erano almeno quattro o cinque vite creative, e quella del dandy ne è parte integrante. Ecco perché sarebbe preferibile personalmente non estrapolare un aspetto di D'Annunzio a spese di un altro, n‚ salvare il D'Annunzio "serio e profondo" rispetto al magnifico polimorfo, o salvare il momento democratico rispetto a quello fascista, l'intimista notturno rispetto al retore solare e guerresco; perché D'Annunzio è tutto quello, ma altro da quello. Al dibattito e alla rivisitazione dell'opera dannunziana Valesio ha da anni contribuito e se il volume da poco uscito ne è il risultato di maggiore importanza, dobbiamo anche ricordare il convegno da lui organizzato a Yale nel 1987, che non solo servì a rivalutare il ruolo di D'Annunzio, ma contribuì a modificare il canone della letteratura italiana allora vigente negli Stati Uniti.
Un altro aspetto interessante del libro è l'attenzione, propriamente la cura che Valesio dedica alla teoria. Teoria non intesa come mera applicazione di un metodo, o ricetta, ai testi letterari, ma come interpretazione-commento che si fonde continuamente con l'atto della lettura, riflettendo contemporaneamente su se stessa. "Metodo itinerante" lo chiama Valesio, sottolineando nell'etimo più lo 'hodòs', la via, che il meta. Di "avventura interpretativa" parla anche Valesio. nell'introduzione, avventura particolarmente adatta a un autore quale D'Annunzio, dove l'intreccio fra arte e vita è - come già detto - cruciale. Per questo Valesio ci offre, come modello possibile di lavoro critico, la sua ricerca sempre "in progress". Cosi, per superare un'impasse che sente pesare intorno a se nel panorama cultural-interpretativo, fra una critica dei segni, o critica semiotica che rischia la sterile tautologia, e una critica postheideggeriana (una critica meditativa cui pure si sente affine, ma che spesso cade in vaghe e nichilistiche oscurità) Valesio parla oggi di "semio-storia", dove l'aspetto umano, storico e politico si confronta con quello letterario, linguistico e retorico, e dove si coniuga, nell'analisi di un'opera letteraria, in modo n‚ compromissorio n‚ tranquillizzante, l'etica con l'estetica.
Nella stessa opera di rivalutazione di D'Annunzio vediamo impegnato un altro bolognese, Renato Barilli (docente di fenomenologia degli stili presso il DAMS, noto critico d'arte e studioso di estetica) che ha già dedicato saggi importanti non solo a problemi di arte, poetica e retorica, ma anche ad autori fra i due secoli come Pascoli, Pirandello e Kafka. Il punto di partenza di Barilli, nel suo "D'Annunzio in prosa", è ancora più polemico e provocatorio: non solo si oppone all'ostracismo che ha colpito ingiustamente la figura globale dell'artista pescarese (e con lui quelle che definisce "le avanguardie deboli della fine del secolo scorso"), ma vuole riabilitare il D'Annunzio "prosatore", i suoi romanzi e il suo teatro. Anzi - si chiede Barilli - se invece che poeta (lirico e notturno) D'Annunzio "fosse istintivamente portato alla prosa?". Ed è, allora, alla ricerca di questo "mistero", della genetica letteraria dannunziana che si possono scorrere le pagine di questo libro dove Barilli, cercando di esaminare D'Annunzio "autore in toto", ne riscopre la "coerenza" e le affinità con la grande stagione europea della fin de siècle. Dalle prose narrative iniziali, di un D'Annunzio "impaniato nel Verismo", si passa ai romanzi maggiori come "Il piacere", dove l'autore si riporta "alle radici della contemporaneità", al romanzo di fine Settecento, e ritorna allo schema dell'educazione sentimentale, che ritroveremo anche nei romanzi successivi, "Il trionfo della morte", "La vergine delle rocce" e "Il fuoco". Pari attenzione viene data al teatro, dove dominano i personaggi femminili: è l'epoca, infatti, delle grandi attrici-dive, non solo Eleonora Duse (la musa ispiratrice), ma anche Sarah Bernhardt, che interpreteranno le sue donne forti e sensibili, sensuali e intellettuali, eroine che devono a poco a poco prendere il posto dell'eroe stanco, del seduttore in declino.
I due libri si affiancano e si integrano, dando all'opera dannunziana il peso che merita nel panorama europeo del Novecento. Perché D'Annunzio, caso forse unico nelle lettere italiane, fa di tutti i modelli culturali, i reperti e le reliquie, le perle e i cascami, un suo mondo poetico. La sua modernità (e il suo dandismo) consistono nell'aver capito che la poesia nasce anche dalla contaminazione; e così, con grande consapevolezza, costruisce la sua poesia contaminata e il suo Vittoriale, grande museo-monumento al falso. E la sua modernità consiste anche nell'essere tutto (e nulla) contemporaneamente: il vero e il falso, l'arte e la vita, il bello e il brutto, il raffinato estetismo e il kitsch più smaccato. Ma soprattutto nel suo essere, come Wilde, "grande signore del linguaggio". Dalla citazione al plagio, dall'assemblaggio al furto, usando senza pudori tutto il repertorio di modi e stili tratto dal bazar della tradizione, D'Annunzio fa seriamente i conti con la morte dell'arte, del linguaggio, elevandovi contemporaneamente un monumento che tutto può suscitare fuorché l'indifferenza.

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Conosci l'autore

Renato Barilli

(Bologna 1935) critico italiano. Insegna fenomenologia degli stili all’università di Bologna. I suoi interessi spaziano dall’estetica alla critica d’arte, alla critica letteraria. Fra i suoi studi: Per un’estetica mondana (1964), Poetica e retorica (1969), Informale Oggetto Comportamento (1979), L’arte contemporanea (1984) e, in ambito letterario, La barriera del naturalismo (1964), L’azione e l’estasi (1967), La linea Svevo-Pirandello (1972), Parlare e scrivere (1977), Viaggio al termine della parola (1981), Pascoli (1985), D’Annunzio in prosa (1992), La neoavanguardia italiana (1995), Pascoli simbolista. Il poeta dell’avanguardia «debole» (2000), Maniera moderna e manierismo (2004), Bergson. Il filosofo del software, 2005.

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