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Di Maria Pina Ciancio ho già letto due sillogi, Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro, e Tre fili d’attesa, una plaquette che mi ha confermato, anche se in realtà non ce n’era bisogno, le sue qualità poetiche. Tanto vale che richiami i pregi che nobilitano i versi, cioè una scrittura in punta di penna, lieve e dolce al tempo stesso, con parole non certo gridate, ma sussurrate. Mai enfatica, quasi timorosa di mostrare il suo cuore, pur tuttavia ha la straordinaria capacità di entrare nei cuori di chi legge. Le stesse considerazioni valgono per questa nuova raccolta , D’argilla e neve, dove il tema trattato è a lei particolarmente caro, visto che sua produzione ne è uniformata, e mi riferisco alla nostalgia per la regione di origine della sua famiglia, la Basilicata (lei è nata in Svizzera) e abita ad Ariccia nel Lazio, dopo aver trascorso parte della sua infanzia fra la Confederazione Elvetica e il nostro Meridione. Questo nostos ha il sapore di un rimpianto persistente in cui si strugge la poetessa, perché tante patrie tendono inevitabilmente a spaesare, rendendo quasi una chimera quella Lucania di cui sentimentalmente si sente parte e dove cerca di far riaffiorare le radici A differenza di altri poeti che hanno cantato il Sud, unendo alla nostalgia il lamento per una secolare arretratezza, magari anche con toni forti, come nel caso di Vincenzo D’Alessio, in Maria Pina Ciancio prevale nettamente il sentimento della nostalgia, e ciò anche nella scia di un altro grande poeta lucano, Rocco Scotellaro, tuttavia meno intimo, più generalista, quale si addice proprio a un sindacalista. E ciò che più riaffiora nel ricordo è l’infanzia, senz’altro l’età più bella, con un apprezzamento notevole per le cose semplici, per le amicizie, per il piacere di rendersi utili avendo in cambio un piccolo vantaggio. Da leggere, ovviamente.
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