Diari

E' lecito chiedersi perché mai questo libro sia stato pubblicato.Capriccioso,incoerente,inetto,malinconico,nostalgico e viziato.Questo emerge dalle prime pagine della lussuosa e imponente edizione Einaudi fino a pagina 328,quando ha inizio invece una sorta di resoconto personale sulla politica e sul fascismo.Se nella prima parte l'autore si abbandona ad una indagine psicologica dallo scarso spessore culturale in cui narra vicende simili che si ripetono in una sorta gioco ossessivo "appena torno in città ho fatto arrabbiare la mamma...ma anche si è che in famiglia non riesco a leggere ",oppure "brutta giornata per i miei nervi.A pranzo,ogni scusa mi è stata buona,per far arrabbiare o la mamma o Nenè",nell'Album rilegato in tela grezza《giornale》,è possibile apprezzare,attraverso una prosa più sinuosa e ordinata,la concezione che Delfini ha avuto del fascismo e del PNF "mi ripugna il partito fascista repubblicano,benché in un senso di dignità umana,di coraggio,e di diritto,mi ripugni meno di quel che ora in Firenze-non mi ripugni il complesso dittatoriale anglo-russofilo dei Comitati di liberazione e tutta la loro cricca di rancorosi".Iscritto al fascio a dodici anni matura un senso di ribellione e rifiuto verso i fascisti "so che devo trasporre il mio odio.Perchè io non ho odiato finora il fascismo:io ho odiato i fascisti.Devo invece odiare il fascismo e non i fascisti".Siamo ad una distanza siderale dallo Zibaldone leopardiano che pur l'autore cita come libro di riferimento,dai Quaderni dal carcere di Gramsci,da Il mestiere di vivere di Pavese,dal Diario di Sylvia Plath, dalla poesia introspettiva ed esiliata di Amelia Rosselli che scava per cercare il suo rifugio fino a costruirlo nella sua poesia.E siamo anche distanti dal Diario di Anna Frank.Qui invece riflessioni,invettive,esplosioni di stati d'animo si combattono quasi ad uno stato primitivo,delineando con una banalità assoluta il prototipo dell'inetto sveviano privato di ogni carattere letterario.

Se Dolores Prato ebbe a dichiarare di essere molto grata a Natali Ginzburg per la pubblicazione di “Giù la piazza non c’è nessuno” (Einaudi 1980), nonostante le molte manomissioni del testo “per renderlo più accessibile”, non riusciamo a immaginare come Antonio Delfini avrebbe commentato la curatela (sempre, ma non solo, di Natalia Ginzburg) dei suoi “Diari” (Einaudi 1982). Una cosa è certa: la pubblicazione ex novo di questi "Diari" (sempre da Einaudi) è testimone della migliore pratica editoriale, dovuto alla competenza e al rigore intellettuale di Irene Babboni. Quando si ha tra le mani una prosa d’arte, un documento di vita, o uno scritto che partecipi alla natura dell’una e dell’altro, non è corretto arrangiare il testo per creare un “buon” libro, iun prodotto culturale accessibile, di piana e godibile lettura. Occorre fare una scelta: pubblicare (qual è), o astenersene. La riproduzione dei diari di Antonio Delfini come ci sono stati tramandati, senza tagli, per quanto basati su di un gusto sicuro e robusto, è atto più che meritorio, dovuto. Non si discute qui dell’aggiunta di materiali eterologhi nella prima edizione, né del ruolo che ebbe nella sua impostazione Cesare Garboli (che, peraltro, ha “patrocinato” anche la seconda), ma di come andava (e finalmente è stato) “fatto” questo libro.