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I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels - Francesco Tuccari - copertina
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I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels - Francesco Tuccari - copertina

Descrizione


Il testo fa un'analisi comparativa dell'opera di due "classici" della sociologia e del pensiero politico contemporaneo: due autori che, posti di fronte ai nuovi scenari prodotti dall'introduzione del suffragio universale giunsero a nuove definizioni della democrazia con un vocabolario per molti aspetti simile. Da un lato (è il caso di Weber) il percorso di un intellettuale liberal-democratico disposto ad accettare i tratti plebiscitari della democrazia dei partiti come l'unico argine alla minaccia dispotica delle organizzazioni burocratiche; dall'altro (Michels) il percorso di un intellettuale radicale che era destinato a riconoscere nel fascismo italiano una vocazione democratica più autentica di quella propria delle democrazie parlamentari.
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Dettagli

1993
31 maggio 1993
356 p.
9788842042433

Voce della critica

WEBER, MAX, Parlamento e governo

TUCCARI, FRANCESCO, I dilemmi della democrazia moderna
recensione di Turchetto, M., L'Indice 1994, n. 4

In "Parlamento e governo", opera del 1918, Weber rielaborò alcuni articoli apparsi tra il maggio e il giugno del 1917 sulla "Frankfurter Zeitung". Si tratta di un testo per molti aspetti legato alla situazione politica tedesca di quegli anni (il titolo originale, infatti, è "Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland") anche se, naturalmente, non mancano motivi di ampio respiro teorico, che vanno ben al di là della contingenza: in primo luogo, l'analisi della burocrazia come specifico connotato della società capitalistica, come fenomeno da interpretare "in strettissima connessione con il moderno sviluppo capitalistico" basato sul calcolo razionale; in secondo luogo, l'originale impostazione data al problema del nesso tra legalità e legittimità, tra sfera normativa e sfera dell'agire somale, oggetto, in quegli anni, di un acceso dibattito giuridico. Per approfondire questi aspetti - eminentemente teorici - vale ancora la pena di leggere "Parlamento e governo": non certo per decidere il "colore politico" di Weber, come troppo spesso è stato fatto, o per illuminare le italiche vicende di "Tangentopoli", come suggerisce assai infelicemente" Franco Ferrarotti nella premessa a questa nuova edizione del testo weberiano. Su questa infelice premessa ci soffermiamo ancora un istante: del resto, essa rappresenta l'unico cambiamento in questa riedizione di "Parlamento e governo", che propone la medesima traduzione e introduzione di Francesco Fusillo dell'edizione - sempre Laterza - del 1982. In compenso, si tratta di un cambiamento veramente drastico, di una vera e propria inversione di tendenza o quanto meno di gusti. Nell'82 Ferrarotti si mostrava severissimo nei confronti di Benedetto Croce, "tanto canoro nel discettare di politica... quanto prudente in parlamento", e considerava il filosofo napoletano un tipico esemplare di quei "letterati della politica" - ossia gli intellettuali pronti a speculare su grandi ideali e questioni di principio ma assai poco attenti agli effettivi meccanismi di funzionamento della democrazia parlamentare - con cui Weber polemizza in "Parlamento e governo". Nel '93 troviamo un Ferrarotti del tutto conciliato con l'idealismo italiano e le sue debolezze politiche e anzi fervente ammiratore di Giovanni Gentile: tanto da riscontrare, tra Gentile e Weber, un'"imprevista convergenza". Francamente, più che "imprevista", una simile convergenza ci sembra del tutto infondata: è difficile immaginare due autori più distanti per formazione, orientamento, idee, interessi, convinzioni. Ed è difficile dimenticare che alla "passione politica" dello stato fascista, dobbiamo tra l'altro una riforma della pubblica istruzione che ha reso in larga misura istituzionale la formazione di quei "letterati della politica" che tanto dispiacevano a Weber.
Un'altra "convergenza" ci viene proposta, in modo assai più serio e documentato, dal volume di Francesco Tuccari, che ricostruisce i percorsi intellettuali del "Weber politico" - "Parlamento e governo" è l'opera weberiana che, in questo studio, fa la parte del leone - e di Robert Michels, mitico della democrazia e teorico apertamente fascista del "rapporto sintonico" tra il capo e le masse. L'impressione che se ne ricava è che i percorsi tracciati - con una trattazione ampia e approfondita, che fornisce utilissime informazioni e importanti spunti di riflessione - rimangano drasticamente paralleli privi cioè di effettivi punti di contatto, se si eccettuano alcune relazioni personali non necessariamente significative e la recezione da pane di Michels di alcuni spunti weberiani questi ultimi, tuttavia, vanno a confluire in un apparato concettuale largamente eclettico - in cui convergono suggestioni del sindacalismo rivoluzionario e di certo marxismo, elementi delle teorie elitiste, tematiche psicologiche - , distantissimo dalle coordinate metodologiche weberiane. E anche la problematica dei due autori è lontana: Weber non è - come Michels - un autore "politico". La sua attenzione per le forme della democrazia contemporanea non è mai disgiunta - nemmeno negli scritti d'occasione - da un più vasto interesse per il diritto nel suo complesso e per la burocrazia (la quale non è una "degenerazione" del potere, ma una forma moderna di amministrazione consona alla struttura "razional-calcolante" del capitalismo). L'analisi di questi aspetti, a sua volta, non è che una parte del vastissimo compito conoscitivo che Weber si propone e che mira a ricostruire la complessa interazione delle relazioni sociali specificamente capitalistiche, a partire da quelle economiche.
Se proprio il "Weber politico" - che lo ribadiamo, si ottiene solo con una discutibile riduzione degli interessi weberiani - deve essere letto in connessione con altri autori, allora l'accostamento più perspicuo è ancora quello suggerito da Francesco Fusillo nell'introduzione a "Parlamento e governo". Fusillo confronta l'impostazione data da Weber alla questione della legalità con quelle di Kelsen e Schmitt, individuando nella problematica weberiana del riferimento al valore una sorta di "terza via" tra normativismo e decisionismo. Tra questi termini di paragone l'originalità di Weber risulta, in effetti, ben delineata. Sarebbe tuttavia un errore considerarla una posizione isolata: essa è condivisa, negli stessi anni, da un importante filone del pensiero giuridico tedesco e austriaco, che si definisce "scuola teleologica del diritto" e che con il formalismo kelseniano, in particolare, instaura un confronto assai serrato. Gli autori di questa scuola - Kantorowicz, Reinach, Schwinge - si richiamano esplicitamente a Weber (e a Rickert), eppure sono stati piuttosto trascurati dagli studiosi italiani di Weber. Crediamo che in questa corrente di studi giuridici si possano trovare ben altrimenti fondate "convergenze" con il pensiero di Weber ed elementi utili per meglio comprendere l'opera tanto complessa di questo autore.

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