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Antonio Pizzuto fu a lungo tempo perseguitato dalla vera o presunta inaccessibilità della sua produzione narrativa. La sua corrispondenza è fitta di riferimenti in questo senso, ma lo scrittore siciliano non smise perciò di perseguire quella che Sandro Sinigaglia, altro incomprensibile e quasi obliato, chiamava "la via più scabrosa". Al modo di Sinigaglia, anche Marosia Castoldi non pratica nessun trobar clus. Per avvicinarsi ai suoi testi e al loro a tratti sconvolgente extratesto, bisogna però dotarsi di rispetto, gentilezza e capacità d'ascolto. Allora molto non tutto si terrà e le lacune sul piano, per esempio, della logica formale potranno risolversi nella dimensione metafisica che a Castoldi è propria.
Questo breve romanzo, che anticipa un colosso di 728 pagine appena uscito per Feltrinelli sotto il titolo evocativo di Dentro le mie mani le tue, raggruma molti dei suoi temi prediletti, in un intreccio che non è facile riassumere. Il protagonista, quasi il mattatore, è un Alfredo Venti, professore di disegno in un istituto d'arte. Come insegnante, non dev'essere un gran che: gli studenti lo prendono in giro, non pare beneficiare della stima dei colleghi al modo che non vanta neppure della sua per se stesso. Vive da solo, perché Rebecca, la moglie, è andata a lavorare nel Chiapas dove, si suppone, rimarrà per il resto dei suoi giorni. Pietro, il bambino che la consorte ha lasciato in custodia al marito, è figlio di lei e non di lui, che però sceglie di prendersene cura. Questa è una delle possibili dimensioni di Alfredo Venti: l'agnello sacrificale, il capro espiatorio alla René Girard, su cui grava la malattia e la sofferenza di un mondo incomprensibile.
Ma Venti è ben altro da un insegnante frustrato. La sua vocazione è quella per l'arte, e ovviamente non figurativa. A casa va realizzando una specie d'installazione d'arte povera, che chiama "L'eternità" (a proposito della dimensione metafisica di cui sopra). Di eterno quest'opera non ha niente in particolare, visto che raccoglie, assemblati alla meno peggio, oggetti della vita di Venti: con che Castaldi inserisce potentemente la sua idea di trascendenza, che è puramente oggettuale. In ogni cosa, sembra potersi inferire, si contiene la nozione stessa di trascendenza e, forse, anche di divinità. L'idea ha ascendenze eckhartiane, ma non è lontana neppure da certo pensiero induista, di sicuro più vicino alla sensibilità di Marosia Castaldi. La vera opera che Venti va realizzando viene però scoperta, e addirittura intitolata, da una delle due donne che seguono la fuggitiva Rebecca nel romanzo. Si tratta di Fiorenza, critica d'arte, che battezza con un nome fin troppo esplicito ("Il dio dei corpi") un lavoro concettuale ma inconsapevole di Venti: l'armadio degli psicofarmaci di cui l'insegnante-artista si nutre. Il titolo cita chiaramente un lavoro di Jean François Bory, di certo noto a Marosia Castaldi, e rivela un'altro piano di lettura del romanzo: il rapporto tragico della vita con l'arte, che Castaldi conosce per avere frequentato anche quegli ambienti. La conclusione del romanzo è apocalittica, senza remissioni, e nega qualsivoglia possibilità di redenzione.
Questa congerie di personaggi senza via d'uscita, di storie senza destino, è raccontata facendo uso di una lingua molto elastica, e con un timbro che sembra evocare di continuo, al modo di una salmodia, l'assenza di una divinità. Come in altri romanzi di Castaldi, non soltanto si manca di rispetto all'unità di tempo, ma la s'ignora addirittura: i piani temporali sono sovrapposti gli uni agli altri, la sensazione è quella di un eterno ritorno tutto fuor che cristiano. In questo senso, non sarà indecoroso leggere questo libro anche aprendone le pagine a caso, come si può fare per esempio con l'Etica di Spinoza o, perché no, con uno degli asperrimi Seminari di Jacques Lacan. Il Dio dei corpi sarà pure un lavoro preparatorio del groβe Roman e intanto nutre cospicue ambizioni. È un testo sapienziale e drammatico, contraddittorio in ogni pagina e insieme coerente con se stesso fino alla disperazione. Il dramma, grande espunto da molta letteratura italiana contemporanea, ha qui il suo teatro e la sua casa.
Giovanni Choukhadarian
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