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È diventato un luogo comune affermare che il problema più serio e urgente dell’Unione europea è quello della disoccupazione. Non si tratta invero, in senso stretto, di una novità: se si guarda alla tendenza di lungo periodo, nei principali paesi dell’Unione monetaria l’aumento della disoccupazione dura ormai da quasi tre decenni. Vi sono, è vero, le eccezioni, come l’Olanda, e in Europa, ma fuori dall’Unione, il Regno Unito. E c’è l’episodio degli anni ottanta, piuttosto trascurato ma assai significativo sul piano analitico, su cui richiama giustamente l’attenzione Giorgio Rodano nel suo bel volumetto: la disoccupazione europea, dopo essere salita fino al 12% del 1985, era poi scesa al 9% del 1990: un episodio che ci ricorda che anche in Europa, nei paesi che oggi sembrano più "difficili", la disoccupazione può scendere. Purtroppo, però, negli anni novanta la tendenza si è capovolta, il numero dei disoccupati nell’Unione ha ricominciato a salire, e oggi, benché in leggera flessione, il tasso di disoccupazione sta comunque poco sotto l’11%. Una situazione completamente diversa si presenta, com’è noto, sull’altra sponda dell’Atlantico: gli Stati Uniti, infatti, sono riusciti a far scendere la disoccupazione dai livelli dell’8-9% dei primi anni ottanta fino all’attuale 4,5%, e hanno perciò stesso assunto agli occhi del mondo, e degli europei in particolare, la figura e il ruolo della pietra di paragone (se non addirittura, per alcuni, quello della pietra filosofale). I modelli, si sa, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro, non sono facilmente trasferibili da una parte all’altra dell’oceano. Ma resta comunque il fatto che il caso americano e quello dei paesi europei non appartenenti all’area dell’Euro stanno lì a mostrare se non altro che una disoccupazione alta o addirittura crescente nel lungo periodo non è in quanto tale un attributo inevitabile delle odierne economie di mercato, o il prodotto delle tendenze più recenti dello sviluppo, tecnologico, o della globalizzazione, o della concorrenza dei paesi del Terzo mondo a bassi salari. Se infatti le cause preminenti di disoccupazione fossero queste, esse dovrebbero aver colpito in modo simmetrico e simultaneo tutti i paesi sviluppati.La crescita della disoccupazione è invece un problema peculiare di alcuni paesi del continente (non tutti), che hanno in comune l’appartenenza all’Unione monetaria. Se si guarda poi alle politiche economiche contro la disoccupazione che sono state sviluppate nei paesi dell’Unione, è inevitabile concludere che governi e banche centrali hanno a lungo tenuto, al di là delle dichiarazioni ufficiali, un atteggiamento di sostanziale inerzia, se non addirittura di tolleranza, nei confronti delle tendenze in atto nei rispettivi mercati del lavoro. Dal lato della domanda aggregata si sono comportate come se le politiche restrittive fossero le sole capaci di far avanzare il processo di integrazione monetaria: la tesi, che è stata ripetuta in verità fino alla noia, è che il sostegno alla domanda non giova in modo durevole all’occupazione, ma è solo fonte di inflazione. Le politiche per l’occupazione sono state perciò assegnate in toto a interventi "dal lato dell’offerta" dei singoli paesi: solo modificando gli istituti e le caratteristiche tipiche dei mercati del lavoro europei in modo da aumentarne la flessibilità (e Rodano spiega assai bene che cosa si celi concretamente dietro questa generica espressione) si sarebbe potuto – questa era la tesi – ottenere nuova occupazione.Ma anche dal "lato dell’offerta" è prevalso, in definitiva, un sostanziale mantenimento dello status quo. Indubbiamente alcuni cambiamenti hanno indotto un aumento della flessibilità, ma il carattere di fondo dei mercati del lavoro continentali – che pure, come Rodano mostra assai bene, presentano significative differenze tra loro – non è fondamentalmente mutato; e del resto, oltre una certa soglia, in un quadro sostanziale di stagnazione e di disoccupazione crescente, l’aumento della flessibilità diventa politicamente impraticabile ed economicamente dannoso. Un nocciolo razionale in questa situazione sostanzialmente inerziale può essere individuato nel fatto che le misure restrittive (le "rigidità") non rimosse dal lato dell’offerta, associate alle restrizioni dal lato della domanda aggregata, vengono in buona sostanza considerate, nei paesi dell’Unione europea, come un costo che deve essere pagato per raggiungere gli obiettivi di integrazione economica e monetaria, e allo stesso tempo per mantenere la coesione sociale e il grado attuale di egualitarismo socialmente condiviso. La società "dei due terzi", con un’occupazione ridotta ma relativamente garantita, e con una disoccupazione elevata e variamente assistita, viene cioè considerata come un’alternativa preferibile all’altro corno del dilemma, rappresentato dal modello americano: una società con bassa disoccupazione, con un’occupazione elevata ma non garantita, con ampi divari retributivi (i livelli più bassi, come mostra il fenomeno dei lavoratori poveri, in realtà possono non assicurare neppure la sopravvivenza), senza tutela sindacale, e senza o con scarse reti di protezione sociale. È questo davvero un dilemma reale per le attuali economie di mercato? O non si tratta piuttosto di un falso dilemma? Per rispondere occorre evidentemente chiarire, sul versante economico, quali sono le vere determinanti della disoccupazione "europea", e in particolare il peso che vi hanno le "rigidità" dei mercati del lavoro, da un lato, e l’insufficiente crescita della domanda, dall’altro. Un tema non a caso piuttosto controverso. E a questo proposito il volumetto di Giorgio Rodano, nonostante si presenti assai modestamente come un’introduzione elementare al problema della disoccupazione, non si sottrae per nulla al compito di fornire una diagnosi precisa e di prendere posizione anche sui temi più difficili e dibattuti. Rodano rifiuta di accettare i due termini estremi del dilemma. Egli sostiene infatti che la teoria economica di oggi (si vedano in proposito i capitoli quarto e quinto), o perlomeno quella più condivisa su entrambe le sponde dell’Atlantico, consente di andare molto oltre la semplice rappresentazione aggregata del mercato del lavoro basata sul modello neoclassico della concorrenza "pura", nell’ambito del quale la flessibilità dei salari e il gioco della domanda e dell’offerta assicurano l’eliminazione della cosiddetta "disoccupazione classica".In questo stesso senso le diversità tra Europa e America non possono essere interpretate come una contrapposizione tra rigidità e flessibilità. La flessibilità dei mercati del lavoro è importante, ma non può svolgere un ruolo esclusivo nell’equilibrio sui mercati del lavoro, e i suoi effetti – positivi e negativi – sull’occupazione vanno valutati, secondo Rodano, caso per caso. Invece gli alti livelli di disoccupazione "europei" (cioè dei paesi dell’Unione monetaria) si spiegano, secondo Rodano, "con un intreccio perverso di circostanze": da un lato l’eredità, dura a esaurirsi, dei grandi shock degli anni settanta; dall’altro "l’impegno scoordinato e condito di scetticismo (ciascun paese in ordine sparso) per abbattere l’inflazione e risanare la finanza pubblica in vista della costituzione della moneta unica europea". Entrambi questi problemi, per fortuna, sono ormai superati, e ciò apre se non altro una possibilità positiva, analoga a quella che si era già venuta delineando nella seconda metà degli anni ottanta. Se infatti prende avvio una fase duratura di crescita – e questo dipende anche dall’azione espansiva sulla domanda che possono esercitare le autorità –, "gli effetti [positivi] sull’occupazione si faranno sentire". Esponendosi consapevolmente al rischio di essere smentito, Rodano si spinge perciò anche a formulare una previsione: il senso dell’analisi sembra indicare che le prospettive possono essere "relativamente ottimistiche".
recensioni di Vaccarino, G.L. L'Indice del 1999, n. 04
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