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Ospitata negli spazi delle Scuderie del Qurinale, la mostra Dürer e l'Italia (Roma, 10 marzo - 10 giugno 2007, a cura di Kristina Herrmann Fiore) si proponeva un duplice scopo: mettere a fuoco il rapporto di Dürer con l'arte italiana ed evidenziare il debito che questa ha maturato nel Cinque e nel Seicento nei confronti del maestro tedesco. Il catalogo della mostra ospita nella sua prima parte una serie di saggi il cui oggetto è il rapporto di Dürer (1471-1528) con Norimberga, sua città natale, e con Roma (Matthias Mende), con l'antico e l'Oriente (Antonio Giuliano), con il Veneto (Simone Ferrari), con Leonardo e i pittori lombardi del tardo Quattrocento (Pietro C. Marani), con Firenze (Antonio Natali), con Raffaello (Kristina Herrmann Fiore) e con Mantegna (Marzia Faietti), soffermandosi poi sul collezionismo italiano di opere di Dürer, o all'epoca ritenute tali, tra Cinque e Seicento (Giovanni Maria Fara), per considerare infine le qualità non solo scientifiche ma anche letterarie degli scritti düreriani (Enrico Castelnuovo).
La sezione Catalogo è scandita dai temi scelti per la presentazione delle opere in mostra. Al saggio di Edouard Pommier, Dürer e il ritratto italiano, seguono una serie di considerazioni su Dürer e la mitologia antica (Lucia Faedo), le pagine di Fritz Koreny e della curatrice sul Dürer indagatore del mondo naturale, mentre Karl Scühtz scrive su Dürer pittore religioso e Thomas Schauerte sul rapporto tra l'artista e l'imperatore Massimiliano I. Si propongono e si argomentano dunque le diverse vie nelle quali si è articolato il confronto tra Dürer e l'Italia: alcune acclarate come l'ascendente esercitato dalle incisioni di Mantegna, del quale il tedesco copia tramite ricalco il Baccanale con Sileno e la parte destra della Zuffa di dèi marini (travisandone però con il suo segno inquieto la classicità petrosa), altre più controverse, come il rapporto con Raffaello.
Ma, complice in mostra la scelta della presentazione per temi, rischia di rimanere fuori fuoco un aspetto cruciale di questa vicenda, ossia la varietà nei tempi e nei modi dell'approccio di Dürer con l'arte italiana. Da par suo, Longhi suggeriva come Dürer, nel suo primo viaggio italiano del 1495-96, piuttosto che a Bellini, si sarà "appassiona[to] più a Bartolomeo Vivarini e ai Ferraresi". E invece, dopo il secondo soggiorno veneziano del 1505-07, ecco la comparsa di nuovi valori "tonali", avvertibili sin nella sua produzione incisoria. La mole delle proposte di confronti e di supposti prestiti da opere antiche o contemporanee nelle opere di Dürer si presenta al lettore come veramente imponente. Alcune proposte sembrano però discutibili, come ad esempio l'ipotesi di individuare nel monumento funebre a Roberto Malatesta una fonte iconografica per il bulino Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, nonché, di rimando, una prova della controversa presenza dell'artista a Roma. Quale poi l'efficacia critica del confronto, proposto in mostra, tra il ritratto di Johannes Kleberger del 1526 (Vienna), opera in complesso dialogo con la tradizione numismatica antica e moderna, e un tondo monumentale con volto femminile dell'ambito di Tullio Lombardo?
Giunto quindi il visitatore alla fine del percorso al primo piano chissà quanto disturbato dalla singolare collocazione, non proprio di riguardo, di un'opera chiave come il Cristo davanti a Pilato di Pontormo (Firenze), posto su una parete vicino all'uscita in una sala dedicata agli imponenti progetti grafici promossi dall'imperatore Massimiliano , la mostra proseguiva al piano secondo, con i "riflessi di Dürer nell'arte italiana" del Cinquecento e del Seicento; nel catalogo, i due ampi contributi dedicati a questi argomenti sono firmati da K. Herrmann Fiore. La fortuna di Dürer nel Cinquecento è risaputamente immensa: le sue incisioni sono continuo oggetto di studio e ispirazione e, come ricorda anche Vasari: "Tutti gli artefici di Firenze (
) predicavano la bellezza di queste stampe e l'eccellenza di Alberto". Ma poco oltre, sempre nella vita di Pontormo e proprio parlando degli affreschi alla Certosa del Galluzzo, Vasari aggiunge che "avendo imitato la maniera [di Dürer]" lo stile di Pontormo "venne offeso dall'accidente di quello tedesco". Usare Dürer come modello stilistico, oltre che iconografico, può dunque risultare molto pericoloso. Un distinguo, questo, che sarebbe piaciuto vedere maggiormente sviluppato sul fronte critico, viste le note vicende di alcuni "eccentrici" del Cinquecento italiano, tra cui Lotto, sontuosamente presente in mostra, ma che vale anche per personaggi meno estremi, come ad esempio Montagna (e proprio nessuna parola è spesa sul complicato rapporto di dare-avere tra Dürer e il pittore).
La riconosciuta auctoritas compositiva resta la ragione della fortuna di Dürer (cioè della sue incisioni) anche nel Seicento, cui si aggiunge progressivamente una fama di pictor christianissimus. Ma in quale misura l'incisione del Cristo deriso tratta dalla Große Passion può considerarsi la fonte per il Bacchino malato di Caravaggio? O l'Annunciazione dalla Marienleben il modello per l'Annunciazione di Ascoli Piceno di Guido Reni? La cultura visiva di un artista si muove sempre entro una serie complessa di riferimenti, stimoli, suggestioni; fermo restando una loro effettiva fortuna, peraltro non specificamente connessa ai due esempi citati, i modelli düreriani spiegano ben poco della novità del Caravaggio o dello scelto classicismo dell'opera del Reni, rientrando piuttosto entro una più ampia e meno vincolante vicenda di "storia delle forme". Ma usciti dalle Scuderie del Quirinale, restava invece, di certo intatto, il piacere di aver incontrato un poco "antico maestro in tournée", presente in particolare con i più ammirati capolavori del suo genio grafico Dürer in Italia.
Stefano de Bosio
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