Indice
Le prime pagine del romanzo
La guerra era finita.
Gli incubi no.
Al sergente dei marine Foster “Whist” Cray non importava granché dei sogni. Diamine, in missione era sopravvissuto a cinque anni di incubi a occhi aperti. Ormai, in teoria, alla paura e al panico avrebbe dovuto essere abituato.
Quello che gli dava sui nervi dei sogni era la monotonia.
L’inferno della guerra, perlomeno, gli aveva offerto periodici cambi di scenario. Il suo plotone aveva combattuto nel deserto, nella giungla, nella foresta, nella prateria, in città – più che città erano cumuli di macerie e tubature storte, ma tanto valeva – e una volta persino su una spiaggia.
Anche i nemici erano stati di ogni genere. Aveva sparato contro zergling, idralische, laceratori e tutta quella serie infinita di creature infernali. A volte il sorvegliante, la regina o chiunque guidasse l’assalto inviava i mostri più terribili, e a quel punto i marine si trinceravano mentre un Viking o un Thor si gettava nella mischia per affrontarli.
E un nemico mai incontrato era pur sempre una novità. Aveva anche visto i protoss, di solito impegnati sul campo di battaglia a infliggere gravi danni alle forze del Dominio. In un paio di occasioni era addirittura riuscito a sparare a uno di quei grossi alieni che avanzava incurante verso di lui.
Gli incubi, invece, erano tutti fastidiosamente uguali.
C’erano sempre zerg e idralische. C’erano sempre lui, Jesse e Lena che si spalleggiavano a vicenda contro un attacco furioso.
E il suo maledetto fucile gaussiano C-14 non funzionava mai.
Sparava bene. Rombava col solito colpo sordo e lui sentiva il rinculo contro lo spallaccio della corazza, come previsto. Ma, invece di fiammeggiare a velocità supersonica in direzione dei mostri che li attaccavano, i chiodi da 8 millimetri esplodevano in un patetico arco che li faceva crollare miseramente a terra un paio di metri davanti a lui. Lui provava e riprovava a fare fuoco, ma riusciva soltanto a conficcare chiodi nel terreno. Gli zerg continuavano ad avvicinarsi, spalancavano le fauci per divorarli, e lui si svegliava coi sudori freddi.
Non sapeva mai che fine facessero Jesse e Lena. Spesso si chiedeva se fossero sopravvissuti al sogno.
Probabilmente no. Non erano sopravvissuti alla guerra, non c’era ragione che sopravvivessero al sogno.
Dopodiché se ne stava sdraiato al buio ad ascoltare i battiti sordi del cuore, aspettando di riaddormentarsi. A volte sgusciava fuori dalla stanza nella nuova caserma dei marine ad Augustgrad e beveva una tazza di caffè sul tetto per schiarirsi le idee nella gelida aria notturna.
Ma quello era un giorno speciale. Era il sesto anniversario della fine della guerra, o almeno della sua parte di guerra. Quel giorno l’incubo e il ricordo del sacrificio di Jesse e di Lena e di tutti gli altri meritavano qualcosa in più.
Di solito il tetto era deserto: la gente normale che non faceva il turno di notte dormiva. Quella notte invece trovò qualcuno: un uomo esile e minuto che se ne stava un po’ ingobbito con i gomiti sul parapetto a fissare i sobborghi della città. «Era ora» esclamò quello quando Whist fece capolino dalla scala.