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I fichi rossi di Mazar-e Sharif - Mohammad-Hossein Mohammadi - copertina
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I fichi rossi di Mazar-e Sharif - Mohammad-Hossein Mohammadi - copertina
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2012
1 novembre 2012
137 p., Brossura
9788896908037

Voce della critica

  La guerra è il sottofondo costante, come un rombo d'aeroplano. Ma i protagonisti dei racconti di Mohammad Hossein Mohammadi sono persone normali, bambini, madri, padri, contadini che mietono il grano durante una tregua, mendicanti. Persone normali in un paese, l'Afghanistan, dove "la guerra è diventata quasi un'abitudine", come dice l'autore: "Negli ultimi decenni gli afghani hanno dovuto abituarsi a condurre la loro solita vita e allo stesso tempo combattere per rimanere vivi. Volenti o nolenti, la guerra è diventata parte della quotidianità". È questa "vita in tempo di guerra" che Mohammadi dipinge nei quattordici racconti pubblicati dalla casa editrice Ponte33 sotto il titolo I fichi rossi di Mazar-e Sharif, nella traduzione dal persiano di Narges Samadi. Racconti intensi, anche se la scrittura è sobria, a pennellate veloci, mai ridondante. Una scrittura capace di immedesimarsi nei personaggi. Così Mohammadi riesce a raccontare l'interminabile ciclo delle guerre afghane mettendosi di volta in volta dal punto di vista del giovane di guardia a un ponte, che stringe il suo fucile mitragliatore senza capire bene cosa avviene intorno a lui; dell'anziano padre che spera invano nel ritorno del figlio; o della giovane madre che si prostituisce per mettere del cibo in tavola, mentre il marito si ostina a non sapere. O della bambina che "da quando il padre non era più a casa, la mattina si svegliava sempre con il rombo degli aeroplani". Il rombo annuncia bombe e una fuga tra le macerie, ma il sole splende e la bambina si attarda per arrampicarsi sull'albero in cortile, in cerca di un fico maturo, rosso, quello che dà il nome alla raccolta. Il fatto è che la guerra non distrugge solo le case e le città, ma anche le relazioni umane. Instaura la sua logica: e Mohammadi la rappresenta in modo superlativo nel racconto I morti, dove le voci narranti si alternano. La prima è quella di tre contadini uccisi e gettati in un pozzo, morti che non riescono a morire: sono loro a raccontare come sono stati freddati mentre andavano nei campi, in una pausa nei combattimenti. Quindi parlano i vicini che li avevano guardati uccidere, e si sono limitati a seppellirli nel pozzo; infine parla colui che li ha uccisi ("C'entravano o non c'entravano, non mi interessa. Non erano dei nostri e questo basta. Anche loro, quando hanno avuto l'occasione, ci hanno ucciso perché non siamo della loro gente"), ma poi è assalito dal terrore, aspettando di essere ammazzato a sua volta. "Ho cercato di mostrare quanto sia difficile distinguere tra le parti coinvolte" dice Mohammadi, che ho incontrato tempo fa a Kabul e di nuovo in aprile, questa volta in Italia dove ha partecipato a numerosi incontri pubblici. "La cultura della vendetta, la logica settaria, è stata sfruttata da comandanti che hanno allargato i confini etnici a contrapposizioni politiche per costruire il proprio potere e i propri interessi predatori". Lo scrittore è convinto che la letteratura possa aiutare a interrogarsi sulle radici profonde del conflitto. Insiste: "La guerra ha coinvolto tutti, le parti in conflitto e coloro che pensavano di essere solo spettatori: siamo tutti coinvolti". Torti e ragioni scompaiono anche nel racconto Il deserto di Leilì, dove a narrare è un combattente fatto prigioniero dagli avversari e chiuso insieme a decine di altri in un container. In questo caso l'episodio è reale: avvenne nel dicembre del 2001, quando, dopo la disfatta del regime di Kabul, quei prigionieri erano miliziani Taleban ormai in fuga, presi dai combattenti dell'Alleanza del nord, lasciati morire di sete e asfissia in un camion e sepolti nel deserto. Documentato e denunciato, il fatto cadde nel silenzio, forse perché capovolgeva i ruoli di quelli che allora il mondo considerava i "buoni" e i "cattivi". "Non ho mai guardato alla guerra in modo ideologico ‒ afferma Mohammadi. ‒ È entrata anche nella mia vita, come è successo a tutti, ma non ho mai considerato la guerra 'santa': è sempre guerra, violenta e spietata". Mohammadi era un bambino quando la guerra è entrata nella vita degli afghani, e nella sua. Nato nel 1975 a Mazar-e Sharif, importante città dell'Afghanistan settentrionale, aveva pochi anni quando il paese era stato invaso dall'Armata rossa sovietica ed era cominciata la resistenza dei mojaheddin islamici armati dall'Occidente, cioè la prima fase di un conflitto ormai più che trentennale. Suo padre, un intellettuale religioso piuttosto noto e impegnato, fu costretto a rifugiarsi con la famiglia in Iran, dove il piccolo Mohammad è cresciuto. Dice che forse è stata l'esperienza di emigrante a spingerlo alla scrittura ("Ero molto piccolo, in un paese straniero, ricordo tempi bui. Mi piaceva molto ascoltare novelle. Ma era un piacere raro, non c'era nessuno a raccontarmele. La sola cosa che mi calmasse era scrivere i miei ricordi"). Nei primi anni novanta era rientrato in Afghanistan per studiare medicina, ma l'arrivo dei Taleban lo ha costretto a una nuova fuga precipitosa in Iran: è là che infine è riuscito a studiare e ha iniziato a dedicarsi alla letteratura (con un certo successo: dopo questi racconti, che hanno avuto diversi premi, ha pubblicato due romanzi e numerosi saggi di storia e critica letteraria). Solo nel 2010, ormai scrittore affermato in Iran, Mohammadi è tornato a Kabul, dove oggi dirige la facoltà di giornalismo dell'Università Ibn Sina. "Ero stufo di fare l'emigrante, spero che i miei figli possano vivere qui", mi aveva detto allora, nel campus dell'istituto, in un nuovo quartiere residenziale della capitale afghana. Oggi si dichiara assai meno ottimista: il 2014 incalza, con il ritiro delle truppe occidentali, e l'Afghanistan vive in un clima di incertezza, paura, insicurezza. Mohammadi la sperimenta come editore, oltre che scrittore: perché appena tornato in Afghanistan ha aperto una casa editrice, Tak, e ha pubblicato oltre sessanta titoli tra cui almeno una trentina di giovani autori. Alcuni libri hanno però attirato le ire di gruppi religiosi conservatori: "Non è dal governo che abbiamo avuto ostacoli ma da alcuni gruppi, fazioni non abituate al confronto. Lavorare e scrivere è più difficile oggi di tre anni fa, corriamo il continuo pericolo di essere bollati come miscredenti". Eppure le università restano piene, i libri circolano, i giovani discutono. "Sono loro che mi danno speranza. Hanno una gran sete di apprendere. Sono convinto che il futuro dell'Afghanistan sia nelle loro mani". Una società civile che tenta di ricostruire una normalità, ricominciando dalla parola.   Marina Forti  

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