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I filosofi e Dio - Sergio Landucci - copertina
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Descrizione


Questo libro espone le principali argomentazioni classiche elaborate dai filosofi a dimostrazione dell'esistenza di Dio: la tesi del supremo architetto sovrintendente del mondo e quella che individua in Dio la causa, necessariamente esistente, di tutti gli esseri contingenti. Il tema è affrontato lungo un arco storico-filosofico che spazia dal XIII al XVIII secolo, dalla formulazione originaria della Scolastica fino alla kantiana "Critica della ragion pura" che segna la crisi definitiva della teologia filosofica.
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Dettagli

2
2006
14 aprile 2005
238 p., Brossura
9788842075899

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Utente ibs
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Studio storico erudito. Bella scrittura. Lettura impervia ma feconda.

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Voce della critica

Malgrado l'ampiezza cui sembra alludere il titolo, l'argomento centrale del libro, come dichiara lo stesso autore fin dalla premessa, è quel complesso di argomenti utilizzati per dimostrare l'esistenza di Dio e che vanno sotto il nome di prove teleologiche o fisico-teologiche, in quanto vengono desunte dall'ordine riscontrabile nel mondo: il famoso Dio "orologiaio" di Voltaire, le cui radici sono in realtà antichissime poiché le si può far risalire almeno fino ad Anassagora, Platone e Aristotele.
Quasi al termine del percorso della filosofia antica, Filone di Alessandria così presentava l'argomento, utilizzando l'esempio della casa (o della città) che verrà ripreso in quasi tutte le discussioni moderne, da Gassendi a Hume e Kant: "Se si vede una casa costruita con cura, con vestiboli, portici, appartamenti per uomini e donne e per altre persone, ci si farà un'idea dell'artista: non si penserà che sia stata fatta senza arte e senza artigiani. (...) Allo stesso modo, colui che è entrato, come in una casa o in una città grandissima, in questo mondo e ha visto il cielo che gira in circolo e contiene tutto (...) costui concluderà che tutto ciò non è stato fatto senza un'arte perfetta e che l'artigiano di questo universo è stato ed è Dio".
Assunto da Tommaso d'Aquino come una delle cinque vie (sebbene non fosse per lui la più importante) per la dimostrazione dell'esistenza di Dio, l'argomento teleologico è andato incontro a forti contestazioni nei secoli centrali della rivoluzione scientifica, tra Sei e Settecento: alcuni, come Descartes, lo ritenevano inutilizzabile, sulla base dell'argomento che fosse impossibile conoscere i fini di Dio, pur non potendo negarli in assoluto, e che fosse quindi inutile invocarli; altri (come Bayle e Hume) incominceranno a mettere in discussione la nozione stessa di "ordine" dell'universo, insinuando il sospetto che si tratti in realtà di un'illusione ottica derivante da un sottinteso pregiudizio antropocentrico; altri ancora, come Kant, depotenzieranno la portata dell'argomento, affermando che la prova fisico-teologica potrebbe al più dimostrare l'esistenza di un demiurgo, una sorta di architetto più nobile del mondo che progetta, ma ancora assai lontano dal Dio necessario, assoluto e infinitamente perfetto della teologia tradizionale. L'analogia tra la casa e l'universo potrebbe forse suggerire l'esistenza di una causa (efficiente o finale) del mondo, ma non dimostrare che essa sia la causa prima e assoluta. Per diventare efficace, l'argomento fisico-teologico avrebbe bisogno di combinarsi con altri tipi di prova (come quella ontologica), ma anche in questo caso i problemi si moltiplicherebbero, alla luce della famosa distinzione kantiana tra l'esistenza come posizione non deducibile a priori e la nozione di perfezione.
Per quanto siano assai critiche nei confronti della struttura probativa dell'argomento, molte di queste considerazioni sottintendono nell'opinione comune l'esistenza di un argomento relativamente stabile e ben consolidato nel corso dei secoli: per citare la testimonianza autorevole di un grande storico e lessicografo della filosofia come Abbagnano, si tratterebbe dell'"argomento più antico e venerabile, quello anche più semplice e convincente, desunto dall'ordine o disegno del mondo". Rispetto a un'impostazione come questa, che pure coglie un elemento reale di continuità, si direbbe di lunghissimo periodo, nell'elaborazione della prova, il libro di Landucci costituisce una piacevole e stimolante sorpresa, come ogni buon libro di storia e di filosofia a un tempo dovrebbe sempre fare: un bel testo di quel genere dovrebbe rivoluzionare le nostre idee ricevute, mostrandoci come concezioni all'apparenza tanto autorevoli da risultare scontate e quasi naturali (sia che le si condivida o no) abbiano avuto invece una loro storia complicata, fatta di alternative e di controversie, di svolte e di ritorni, al punto che già il semplice racconto delle loro vicissitudini (se illuminato da una penetrante analisi concettuale, come è il caso di questo libro) dovrebbe indurci a riconsiderare la struttura di pensiero su cui l'argomento poggia.
Così, attraverso l'analisi di un complicato percorso storiografico che conduce da Aristotele ai suoi commentatori neoplatonici come Temistio sino ad Averroè e a Tommaso, Landucci mostra come proprio l'utilizzo di un passo artificialistico dell'opera perduta di Aristotele, De philosophia ¸ preservato da Cicerone, abbia indotto i successori a estrapolare quella che per lo Stagirita era essenzialmente una finalità interna della natura, per farne una finalità esterna, imposta dal di fuori, e a coniare così una formula propriamente non aristotelica nel contesto dei commenti alla Fisica : "L'opera della natura è opera dell'Intelligenza", con la conclusione più o meno esplicita che questa finalità dovrebbe essere esternalizzata nell'"arte di Dio" o nel cosiddetto "Dio artefice". A partire da questa formula (la cui genesi, rispetto alla purezza del dettato aristotelico, è come si è visto spuria, risentendo fortemente di influenze neoplatoniche), gran parte della filosofia medievale e moderna si è adoperata nel tentativo di pensare coerentemente, o di criticare non meno coerentemente, questo tipo di "intelligenza", sino al risultato di ricuperare la nozione originaria di finalità inconsapevole che il successo dell'artificialismo aveva pressoché cancellato.
In questa storia complicata, in cui entrano averroisti e occamisti, platonici e gesuiti, aristotelici "eretici" del Rinascimento, sociniani, spinozisti e cartesiani, Pierre Bayle svolge come al solito il ruolo di provocatore e di rivelatore a un tempo: con la sua proposta di filosofia "stratonica" che assume l'ordine (inteso quale regolarità secondo leggi) come il prodotto della necessità materiale e immanente al mondo, Bayle prospetta quella che Landucci chiama "un'alternativa di paradigmi". L'artificialismo "normale", che attribuiva a enti in se stessi privi di intelletto la capacità di agire secondo fini, viene ora considerato da Bayle come l'argomento più pericoloso a favore dell'ateismo: se una natura inconsapevole sapesse perseguire da se stessa finalità in modo regolare, la funzione del Dio regolatore diventerebbe del tutto superflua. Invece dell'artificialismo "normale", secondo Bayle si dovrebbe installare una forma diversa di artificialismo "estremo", di tipo occasionalistico, tale da deprivare la natura di ogni efficacia causale autonoma, secondo il principio per il quale "non si fa quel che non si sa (consapevolmente) come venga fatto". Così l'occhio o il braccio non possono fare (da soli, per una finalità tanto interna quanto inconsapevole) quei complessi movimenti di cui non conoscono la dinamica e la causalità: in realtà è solo Dio che agisce realmente, mentre l'occhio e il braccio vengono ridotti a mere cause "occasionali". Come nota efficacemente Landucci: "È stata la coerenza nell'artificialismo a far risaltare l'inconsistenza degli artificialismi normali, combinati con l'assunto dell'operare pur delle creature".
Dopo Bayle , la storia dell'artificialismo e della provo fisico-teologica non sarà più la stessa: l'artificialismo leibniziano prenderà la forma del piano globale ("il migliore dei mondi possibili"), in una prospettiva di finalità "volta al meglio" che neppure il più dogmatico dei finalisti "classici" avrebbe mai osato immaginare; Newton elaborerà invece una forma di artificialismo incline al bricolage, con interventi ad hoc (ritenuti da Leibniz equivalenti a dei veri e propri miracoli), così da rimediare alle anomalie, potenzialmente distruttive del sistema; finché infine Hume e Kant denunceranno tutti i limiti e l'irragionevolezza di un argomento che si basa sul tenue principio dell'analogia, con tutte le imperfezioni e le arbitrarietà che questo comporta, prima fra tutte la pretesa di assumere l'elemento umano come scala di riferimento del presunto rapporto tra il mondo e il suo artefice. Per Kant, né l'idea di un'intelligenza suprema né quella d'una potenza suprema sono ricavabili per la via della finalità della natura, perché "sono inadeguate per eccesso rispetto al punto di partenza". E neppure sarebbe necessario pensare a una causa unica della natura, tanto che non si dovrebbero biasimare troppo gli antichi - nota Landucci riprendendo l'ironia humeana - per aver supposto divinità molteplici, cause plurime e parziali, oltre che di perfezione assai limitata.
È sorprendente constatare come assai prima di Darwin e senza alcun presentimento dei suoi argomenti sulla selezione naturale e sul ruolo del caso nell'evoluzione, già i grandi protagonisti della modernità fossero giunti a mettere in crisi quel finalismo che ai giorni nostri i teorici dell'"Intelligent design" vorrebbero restaurare. Anche a loro si potrebbe rivolgere il consiglio che fin dai tempi di Avicenna avevano dato i vecchi filosofi, di guardare semmai a prove più metafisiche e meno cosmologiche.

Gianni Paganini

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Conosci l'autore

Sergio Landucci

1938, Sarzana

Ha insegnato a lungo presso l'Università di Firenze. È autore di "Cultura e ideologia di Francesco de Sanctis" (Feltrinelli 1964, 1977), "I filosofi e i selvaggi, 1580-1780" (Laterza 1972), "La coscienza e la storia. Approssimazione alla ?Fenomenologia”" (La Nuova Italia 1976), "La contraddizione in Hegel" (La Nuova Italia 1978), "I filosofi e Dio" (Laterza 2005).

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