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Si tratta di un libro complesso, che si svolge su più piani. Prima di tutto si presenta una nuova interpretazione del pensiero di Martin Heidegger. Poi si presenta una nuova interpretazione della storia della scienza. Si mostra che la distruzione della teologia e della filosofia metafisiche, operata da Heidegger per "tornare alle cose stesse", ha una sua naturale convergenza con la distruzione della fisica e delle scienze meccaniciste, operata implicitamente dalla fisica quanto-relativistica del Novecento che mostra una Natura/physis che "ama nascondersi" alle procedure teoretico-matematiche di calcolo e tecnico-sperimentali e richiede un nuovo ascolto, come nella prospettiva originaria presocratica del pensiero come ascolto della parola divina della physis. L'esito di questo percorso è la trasformazione della filosofia e delle scienze in un pensiero che diviene consapevole che la comprensione profonda del mondo si può situare non in una teoresi astratta e nemmeno in una prassi tecnico-sperimentale, ma piuttosto in una prassi etica di vita d'amore come ascolto e cura degli altri esseri umani, di tutti gli altri esseri viventi, della Natura. Questa è la prassi etica che Heidegger aveva già identificato come caratterizzante il Cristianesimo originario, riscoperto al di là di tutte le deformazioni dottrinali metafisico-religiose (come in Agostino e Tommaso) e ideologiche, prodotte storicamente dall'incontro con la filosofia occidentale greca platonico-aristotelica e con l'impero romano.
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L'esame del corposo volume di Enrico Giannetto non può prescindere da un cenno alla ricca personalità del suo autore. Fisico teorico di formazione, storico della scienza di professione, ma anche cultore di storia del cristianesimo antico e appassionato esponente del movimento antispecista, Giannetto ha riversato in questo libro tutti i propri interessi culturali. La tesi che egli sviluppa nella prima parte del saggio può essere articolata nei seguenti punti: il pensiero di Heidegger rappresenta il tentativo più sofisticato di tornare a una fase di "pre-concettualizzazione del mondo", cioè di elaborare una "filosofia che non sia schiava delle concettualizzazioni ma che ci liberi da esse, una filosofia che non sia legittimazione della violenza ma che c'induca a un ritorno all'esperienza effettiva, alla vita, alla Natura in un rapporto non violento"; comprendere il mondo non significa rappresentarlo concettualmente, o immaginarlo, come pretende di fare la fisica da Galileo in poi (questo tipo di conoscenza è una forma di "violenza" e di "predazione"), ma piuttosto stabilire una "relazione autentica" con esso, risalendo a una "rimossa memoria pre-teoretica, pre-specifica e pre-biologica"; dunque, e arriviamo così al titolo del libro, Heidegger si pone come "un fisico originario alla ricerca della fisica originaria: non un'indagine umana sulla Natura, ma l'ascolto e la visione del manifestarsi di un logos divino della physis".
Un'analisi della validità e dell'originalità dei primi due punti esula dagli scopi di questa recensione. E d'altra parte, se l'uso che l'autore fa del termine "fisica" fosse esclusivamente metaforico, senza cioè alcuna pretesa di riferimento letterale alla disciplina scientifica storicamente determinata che siamo soliti chiamare con lo stesso nome, l'intera questione sarebbe di pertinenza degli storici della filosofia. Ma Giannetto propone davvero Heidegger come modello di una fisica nuova (quantunque "originaria"), convergente con quella che, a suo parere, emergerebbe dalle ceneri della "fisica moderna-classica", basata sul primato epistemologico della causa efficiente e associata a un'immagine dell'essere umano come "predatore carnivoro feroce". C'è allora da chiedersi se la fisica che ha in mente Giannetto la scienza che realizzerebbe l'ideale heideggeriano di un ritorno alla physis come "esperienza poetico-pensante dell'essere" sia reale, o se non sia piuttosto il risultato di un'interpretazione forzata, o addirittura distorta, della fisica contemporanea. Questo, purtroppo, sembra essere il caso.
Consideriamo, ad esempio, la discussione della teoria della relatività. Giannetto ravvisa nella genesi della visione relativistica dello spazio-tempo "un intreccio molto forte tra teologia e scienza: la teologia della quarta dimensione di Paolo e [Henry] More". L'idea che il concetto di spazio-tempo (elaborato, ricordiamolo, da Hermann Minkowski) possa avere a che fare con i discorsi di More sulla penetrazione dello spirito nella materia è già di per sé abbastanza azzardata. Ma anche la genealogia storica che Giannetto propone (da More a Poincaré, passando per Hinton e Flammarion) appare fantasiosa e incapace di giustificare l'origine "teologica" della teoria relativistica. E ancora: è priva di fondamento la contrapposizione tra una relatività "originaria" di Poincaré e Hilbert ("correlata a una teologia della Luce") e una relatività "volgare" di Einstein e Minkowski, che "vuole ridurre il mondo a un'essenza matematica atemporale", e si rimane perplessi, per non dire sconcertati, davanti ad affermazioni del tipo: "L'idea di uno spazio-tempo curvo (
) fu plausibile per Einstein (
) perché la rettitudine rettificante-giustificante del Dio della teologia della Riforma (
) non andava più contrapposta alla deviazione curvilinea della Natura". Intendiamoci: non si vuole negare qui che la fisica possa essere usata metaforicamente per aprire nuove vie del pensiero, né che suggestioni extrascientifiche possano talvolta influenzare la scoperta scientifica (ma non è il caso della teologia di More e della relatività). Queste operazioni, però, svolgono un ruolo esclusivamente euristico e non hanno alcuna forza probante nel contesto della giustificazione di una teoria (filosofica e scientifica). Insomma, può anche darsi che una personalissima interpretazione della fisica relativistica abbia fatto balenare nella mente di Heidegger l'"esperienza autentica del tempo cristiano", ma ciò non vuol dire che la relatività comporti veramente un ritorno alla "vita fattizia del cristianesimo originario".
Secondo Giannetto, la prospettiva quantistico-relativistica non è stata compresa e apprezzata nei suoi esiti più radicali, neanche dagli stessi fisici. Questi, anzi, avrebbero operato per normalizzare la fisica contemporanea, riportandola nell'alveo della tradizione meccanicistica. Quali sarebbero dunque le conseguenze più rivoluzionarie della fisica del Novecento? Eccone alcune: "il crollo di qualsiasi rappresentazione possibile del mondo", "l'assenza di un significato fisico universale per i principi di conservazione", l'impossibilità di definire la Natura attraverso il calcolo e le misure sperimentali, l'indistinguibilità tra stato di vuoto e stato di particella. In mezzo a queste rovine resta la "Luce", che è "logos divino", "Natura della Natura", "l'Eterno che si fa carne nel tempo-spazio". È francamente difficile che un fisico possa riconoscersi in una simile concezione del mondo e nella deriva mistica che ne consegue.
Per sostenere epistemologicamente la propria analisi, Giannetto si appoggia a quella corrente di pensiero (per la verità ormai un po' in disarmo) che propone una visione ermeneutica della scienza. Dal suo punto di vista, fa bene: perché, se la scienza è fatta di interpretazioni libere e soggettive di teorie e risultati, anche le speculazioni su Heidegger, il cristianesimo e la fisica contenute in questo saggio sono legittime. Ma è probabile che le cose non stiano così e che, semplicemente, non si possa far dire alla scienza ciò che essa non dice.
Vincenzo Barone
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