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...Non mancano le avventure con i “selvaggi”, che qui però non sono mai, come ci aspetteremmo, dei cannibali; anzi, gli unici a macchiarsi di cannibalismo, in due casi, sono proprio i “civilizzatori” europei, costretti dalla fame dopo un naufragio: e il loro capitano – personaggio che è sempre la voce dla ragione, dla tenacia e a volte anche voce narrante – verrà posto di fronte all’atroce dilemma se far perire lentamente i propri uomini o violare il + antico tabù dle società umane, con tutte le immancabili e terribili conseguenze psicologiche. Delle varie occasioni in cui compaiono, in una storia gli indigeni si mostrano terribilmente ostili, in un’altra, ambientata pochi anni dopo nella stessa Africa australe, pacifici e generosi; la soluzione dl’apparente contraddizione, ovvia (tranne che x certi razzisti di ieri e di oggi), è data da un indigeno stesso: si tratta di tribù diverse. D’altra parte, c’è qlche capitano europeo che approfitta dle condizioni di alcuni naufraghi per derubarli del poco che rimane loro, e si tratta in entrambi i casi di olandesi. Ma anche qui la realtà e la storia s’incaricano di spazzar via ogni generalizzazione: dopo una lunga odissea i pochi inglesi superstiti di un naufragio e di una marcia nella giungla sono accolti e aiutati dal governatore olandese di Città del Capo, malgrado Regno Unito e Olanda siano in guerra tra loro. Nel libro si legge anche di una nave carica di legno di tek che affonda per metà e va alla deriva: i suoi marinai, esaurite le provviste e ormai allo stremo, decidono di tirare a sorte il nome di chi sarà sacrificato per la sopravvivenza degli altri… Al di là di qlche opportuna rinfrescata, il linguaggio dl libro risulta deliziosamente arcaico, è cioè quello della prima traduzione italiana, ottocentesca (v. “imbottare”, “filare per occhio”) e contribuisce al realismo della narrazione; o, anche, a ricordare Salgari, Melville e Conrad. Unico limite dl libro forse il pericolo dla (relativa) monotonia, per cui consiglierei una lettura rapsodica, non continua.
Il libro non è che la riscrittura di un repertorio tardo-settecentesco francese; eppure le storie raccontate in un’opera così semplice riescono a raggiungere la prima finalità di ogni narrazione, suscitare nel lettore la fatidica domanda: “come andrà a finire?” Ciò non tanto in forza di colpi di scena, che non mancano, ma sono pur sempre meno numerosi dei passaggi (quasi) obbligati – naufragio e salvataggio –, quanto piuttosto grazie alla sincerità, all’assenza di retorica e lenocini letterari (tranne qualche piccolo gioco, come il capitano Gericault al comando della nave “Medusa”…). Queste storie hanno insomma la casualità e la spietatezza della vita reale, e, nel corso della lettura, pian piano il mare ti si configura come un silenzioso, misterioso catalizzatore delle sfighe e delle sorprese possibili, della tenacia e dell’inventiva umana, come in Boccaccio e Defoe, delle viltà e degli eroismi. Si parla di (dis)avventure nell’Oceano Indiano, nei Caraibi, perfino nel Mediterraneo e oltre il Circolo Polare Artico (e qui il libro m’ha ricordato “Il capitano Jens Munk” e “La scoperta della lentezza”); si parla a volte di pirati, quelli veri, tagliagole senza epica ma la cui scelta di vita aveva alle spalle precise ragioni sociali, come dimostrava anche la loro democrazia interna (v. “La vera storia del pirata Long John Silver”); di varie avventure individuali e collettive alla Robinson Crusoe, compresa quella del suo ispiratore, il marinaio scozzese Selkirk: in una di queste molti marinai naufragano su di uno scoglio talmente piccolo che impedisce loro persino di cambiare posizione durante il sonno notturno… A proposito, nel malaugurato caso di un naufragio, in compagnia di chi dovreste augurarvi che succedesse? Di Moana Pozzi o dell’esperto capitano di una nave? O ancora di un soldato, di un carpentiere, di un pescatore? No, io non ve lo dirò… Non mancano le avventure con i “selvaggi”... [continua]
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