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Una forma che include tutto. Henry James e la teoria del romanzo - Donata Meneghelli - copertina

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1998
6 febbraio 1998
340 p.
9788815062758

Voce della critica


recensione di Mochi, G., L'Indice 1998, n. 6

Nell'inesauribile proliferare di letture, riletture e misletture di Henry James - il narratore, il critico, il saggista, l'autobiografo, e comunque e sempre il Maestro di fulgide lezioni sull'arte del romanzo - mancava uno studio sistematico di quella straordinaria impresa, ben più che editoriale, conosciuta come la "New York Edition", ossia l'edizione completa e definitiva (che completa non era, e sul definitivo c'è di che riflettere) delle sue opere, che venne pubblicata tra il 1907 e il 1909 dall'editore Scribner, in 24 volumi in formato "de luxe", ciascuno corredato da una prefazione e da una fotografia nel frontespizio, accuratamente cercata e pensata da James insieme al famoso fotografo americano Coburn. Se infatti singoli aspetti dell'opera, quali il problema della selezione e della revisione sostanziale dei testi, e naturalmente le celebri prefazioni, sono da sempre oggetto di studio e di riflessione critica, solo in tempi molto recenti (è del 1995 il volume collettaneo a cura di David McWhirter, "Henry James's New York Edition. The Construction of Authorship", della Stanford University Press) la New York Edition è stata considerata nella sua interezza, "come testo", e nella sua specifica funzione come atto, profondamente conflittuale e problematico, di autorappresentazione.
Da qui il grande interesse dello studio di Donata Meneghelli, che indaga, con lucida scrittura e con un abile gioco di sospensioni e di attese, proprio su quei meccanismi complessi - di affermazione e sottrazione, di esposizione e reticenza, di costruzione e decostruzione - che stanno alla base di quell'imponente edificio (monumento/cattedrale/labirinto/gabbia...: alla metafora dell'edificio e alle sue trasposizioni metonimiche l'autrice dedica pagine acutissime) che è la "collective edition* dei racconti e romanzi di Henry James: "collective "soleva chiamarla James e non "collected" - nota Meneghelli con il gusto indiziario che le è caratteristico - quasi a rifuggire da un'idea di chiusura, di compiutezza, di "già accaduto", e a ricercare invece un senso tutto nuovo di unità e di inclusione. Era stato del resto Joseph Conrad a rimarcare, nel 1905 (quando ancora non si parlava di New York Edition), non solo quanto fosse sorprendente il fatto che non esistesse ancora una edizione completa delle opere di James, ma anche come questa imperdonabile mancanza del mercato editoriale avesse un suo senso e una sua profonda implicazione: "Perché non c'è, in tutta l'opera di Henry James, nessun indizio di conclusione, non c'è nell'autore il minimo accenno alla volontà di arrendersi (o alla possibilità di arrendersi) alle proprie vittoriose imprese nel campo in cui è maestro. James, fortunatamente, non potrà mai accampare nessuna pretesa di completezza". Avvertiva anche Conrad quindi come quella sanzione definitiva, celebrativa e monumentale che rappresenta, per un autore, la pubblicazione delle sue opere complete costituisca al tempo stesso una "resa", una rinuncia, difficilmente pensabile per James e per la programmatica e strutturale incompiutezza della sua scrittura, all'incessante "giro di vite" della ricerca, estetica e conoscitiva, di una forma perfetta.
Ed è forse questa la domanda più appassionante che suscita il grande progetto jamesiano che si sarebbe compiuto di lì a poco: la New York Edition, con i suoi volumi lussuosamente rilegati e impaginati, con le sue splendide prefazioni che articolano una coerente e fondativa teoria del romanzo, con le sue sofferte ma decise esclusioni di romanzi e racconti che, per qualche ragione, non rientrano nella forma "che include tutto" (cadono tra gli altri "Washington Square", "The Bostonians", "The Sacred Fount"), con le sue "perverse" (il termine è di un William James esasperato quanto affascinato) revisioni e varianti volte a dilatare e accumulare, ma anche a coprire e disperdere, il gioco dei significati e delle allusioni - tutto questo va nella direzione della costruzione organica e legittimata di una autorialità e di un canone, oppure, come Donata Meneghelli afferma fin dall'inizio e poi argomenta attraverso percorsi molto convincenti, si tratta di una "operazione che finirà per violare irrimediabilmente gli stessi presupposti di una "collected edition*", disintegrandone la pur fragile compattezza e ulteriormente frammentando le figurazioni dell'Io?
È un interrogativo tanto più interessante in quanto è proprio dal James della New York Edition, quello della cosiddetta "major phase" e del "later style" (l'idea di due James, uno al di qua e uno al di là del secolo, divenuta un luogo comune della critica, sta già tutta in una celebre vignetta di Max Beerbohm, in cui un James giovane e uno vecchio si fronteggiano in cagnesco accusandosi reciprocamente di non saper scrivere) che nasce la costruzione ideologica e culturale del Maestro, la canonizzazione di "Henry James" quale sacerdote protomodernista della forma del romanzo e teorico di una poetica assunta a metodo e a sistema; quella poetica che trova le sue formule felici ma fin troppo risolutive ("metodo scenico", "tecnica del punto di vista", "showing/telling") nei grandi officianti del mito jamesiano: da Percy Lubbock che recensisce la New York Edition nel 1909, a J.W. Beach, a R.P. Blackmur e infine a Leon Edel, che con il saggio "The Architecture of Henry James's "New York Edition" "del 1951 chiude il percorso e ci consegna definitivamente il "monumento letterario" dell'arte del romanzo.
Il confronto serrato che Donata Meneghelli opera tra questa sistematizzazione a posteriori e il testo della New York Edition osservato minuziosamente nelle sue ellissi, nelle sue contraddizioni, e soprattutto nel suo rapporto dialogico con i testi "originali", ci consente di uscire da una lettura di James anch'essa ormai impigrita e cristallizzata nel canone, e di ripensare "verità" sulle quali altri avevano pensato per noi. Il famoso "metodo scenico", per esempio, o il dogma inaugurato da Lubbock della "storia che si racconta da sola": l'analisi, effettuata su più campioni, del processo di revisione, e in particolare di quella modalità per cui il testo si dilata e si amplifica in articolazioni del senso affidate a incisi, allusioni, specificazioni, analogie eccetera, mostra come tali espansioni non investono, se non in piccola parte, i segmenti mimetici (dialoghi, o "scene" in senso genettiano), ma invadono pesantemente il piano del "telling" e il campo della voce narrante, in quella che viene definita una "ipertrofia della istanza narrativa", per cui il narratore tende a scalzare il personaggio, a sottrargli il discorso e ad assumerlo su di sé, marcando la propria voce.
Ma come, non è il tardo James l'apostolo del racconto non narrato, e non è suo merito indiscusso aver liberato il romanzo dall'ingombrante figura del narratore? Le precisazioni a questo riguardo sono salutari per uscire dalle formule sistematizzanti e, alla lunga, semplificatorie: innanzitutto, "con il termine 'scenico' James indica almeno quattro distinti aspetti della costruzione del romanzo e, fino alla fine, non riesce a decidersi per uno in particolare, con conseguenti effetti di ambiguità e di sovrapposizione". Ma soprattutto: non di "assenza" del narratore bisogna parlare, ma di presenza, e tanto più avvolgente quanto meno avvertibile, di un narratore reticente, capzioso e incapace di certezze, che intercetta e allontana l'oggetto del racconto (quella "storia" ancora presente sotto il palinsesto) restituendone una visione obliqua, deformata e scarsamente affidabile. E il procedimento di James consiste proprio nel mettere in scena, sempre più in primo piano, questo narratore il cui sapere e la cui parola non garantiscono più alcun credito. È questo uno dei molti modi, mostrati da Meneghelli, in cui il "monumento" jamesiano si decostruisce e si sfalda: la perfetta e sempre citata "house of fiction" è una proliferazione impazzita di finestre che si oscurano e si incrociano su un frammento di "realtà" sempre più piccolo e sempre più illeggibile, in un processo di differimento dalla cosa che accade al racconto della cosa che accade al racconto del racconto della cosa che accade.
Splendide rovine, dunque, al posto del monumento consacrato dalla critica? In tempi di deriva del soggetto e di conclamata morte dell'autore, anche questo
è un rischio di semplificazione. In una lettera del 1916, poco prima di morire, James si volge indietro a guardare la sua "poor old truncated edition" (che si rivelò un insuccesso da ogni punto di vista, a cominciare da quello finanziario), che gli appare assumere "l'aspetto grottesco di una sorta di "Ozymandias" in miniatura ('guardate le mie opere, o potenti, e disperate') - attorno al quale le solitarie e uniformi sabbie si distendono più che mai lontane", suggestiva analogia che sembra sancire il fallimento della New York Edition come ricomposizione unitaria e coerente dell'opera
l'"opera globale" (il modello è naturalmente Balzac, e anche su questo punto Donata Meneghelli scrive pagine di estremo interesse). Ma concediamoci anche noi per un attimo quel gusto per gli indizi che la scrittura di questo libro ci trasmette. Il sonetto di Shelley non è solo una storia di ambizione frustrata: quelle rovine parlano sì di un imperatore e del suo sogno vano di potere e di eternità, ma parlano anche dello scultore che quelle passioni cercò di leggere, di imitare, forse di tradire e di nascondere (l'intraducibile "the hand that mocked them" del verso shelleyano); ed è "quella" passione, la passione dell'artista, che sopravvive e continua a parlare dalle rovine al "viaggiatore di ritorno da una terra antica" e a colui che ne ascolta il racconto.

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