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In una intervista di un paio di anni fa, l'autrice svela con una certa ironia utopista di “aver voluto fare la giornalista anche per salvare il mondo”: questo libro del 2004 spiega il perchè di quella ragione. Gilberto Gil è sperimentatore di anima, l'anima del Brasile della negritudine che fa danzare, riflettere, esplorare. Il nostro le ha provate tutte in termini di ricerca, anche psichedelica: siamo negli anni della contestazione e in Brasile, il giogo autoritario, si fa voce. Viene sospeso l'habeas corpus nel 1968 e Gil la pagherà con la detenzione e poi con l'esilio: affrontati con dignità e meditazione religiosa; diverrà anni dopo Ministro della Cultura per il governo Lula. Gil ha una faccia simpatica come simpatiche sono le figure che gli susseguono accanto: Veloso, Mautner, Torquato Neto e altri con cui condivide il pathos e l'approccio olistico. L'artista è grande e recupera la ragione della sua terra con il “troplicalismo” e la sua poesia, miscelando le atmosfere artistiche più affinamente diverse, finanche l'amore per la Swinging London da cui recepisce la nuova ondata contestatrice: non solo politica e antimperialismo, ma soprattutto musica, arte e socialità; sarà così World Music, ma mai si allontanerà dal Sertao e dai Cangaceiros, mai si allontanerà dai colori della sua Bahia e da Ituacu. I capitoli sono snelli, ricchi di citazioni e alla fine tutto è corredato da foto, discografia, note, bibliografia e un puntuale glossario; oltre che da due interviste dell'autrice a Gil. La semplicità dello stile dell'opera, invece, cela un lavoro saldo e di rigorosa passione, pacatamente inquieto; scomodando De Santics si direbbe che “la semplicità è la vera forma di grandezza”. L'autrice è riuscita nel suo intento: forse non salverà il mondo, ma è tesa a svelare una idea di cambiamento tanto musicale quanto politica.
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