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Bene ha fatto Angelo Lamberti a voler ricordare, in questa sua pièce drammatica in otto scene, il poeta mantovano Umberto Bellintani (1914-1999), vissuto lontano dalle ribalte letterarie e ormai quasi dimenticato, nonostante esprimesse una sua voce autenticamente e pudicamente lirica, capace di suscitare echi emotivi profondi ("le mie parole sono zappa/ e asino vanga e pietra..."). Lamberti ne delinea metaforicamente il profilo attraverso i due personaggi maschili del dramma, l'ottantenne Giona (semicieco, in carrozzella, assistito affettuosamente dalla nuora Neva, vedova del figlio di lui) e il trentenne Herman, arrivato fortunosamente nel paesino di Gorgo, da cui desidera ardentemente fuggire. Gorgo è il borgo della pianura padana in cui Bellintani ha trascorso tutta la vita: attraversato dal Po, minacciato dalle piene del fiume, abitato da gente scontrosa: "-Gorgo! Un nome che suona come una minaccia.- -O come una profezia". Il vecchio Giona aspetta rabbiosamente anche se fatalisticamente la morte, insultando o accarezzando chi gli sta vicino, inventandosi bestemmie scoppiettanti (diomuto, diosghembo, diodelirio...), sapendo che "nessuno è mai uscito vivo dalla vita"; ma appare orgogliosamente fiero della sua rudezza: "Vedi, noi, gente di golena, siamo dei materialisti. Dopo che siamo andati di là, la nostra speranza è di tornare indietro, quaggiù, ancora con la nostra pelle e le nostre ossa". Il giovane Herman, poeta inascoltato e deluso dal "mondo cannibale", sogna di evadere dall'inferno di Gorgo, saltando al dì là dell'argine del fiume, ma finisce per accettare il suo ruolo nel paese che l'ha ospitato: "Resterò qui, a invecchiare tra la gente che d'ora in poi sarà la mia gente", e dando vita a una nuova vita.
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