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Anno edizione: 2003
Anno edizione: 2005
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Complesso e bellissimo romanzo postmoderno che abbraccia diversi secoli di storia europea. Da leggere e rileggere per assaporare al meglio.
Libro ostico, deliberatamente privo di struttura, a tratti volutamente irritante, costruito per spezzoni di racconto, di stile e di episodi spesso non collegabili fra loro nè facilmente rammentabili (ogni volta che lo si riprende in mano bisogna passare un buon quarto d'ora a cercare di ricordare ciò che si era già letto). Interessante esperimento se fosse limitato a 100-150 pagine, certo non prolungato in maniera ipertrofica a 700. Oltretutto non tutti siamo esperti di storia ungherese, e le frequenti citazioni di episodi oscuri ai comuni mortali non aiutano. Uno dei libri più faticosi che abbia mai letto (e leggo molto). Sopravvalutato.
Questa e' roba illeggibile, punto. Lungi dal voler presentare, sia pure per immagini e in modo fuori dagli schemi, una storia familiare/nazionale, vengono messi in fila una serie di "brandelli" che, senza una profonda e dettagliata conoscenza storica nel senso classico del termine, non hanno alcun significato. Leggo una media di 150 libri/anno, tre quarti dei quali di narrativa, quindi mi ritengo un lettore con tutti i titoli per fare queste affermazioni.
Recensioni
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Da dove cominciare di fronte a questo enorme libro di più di seicento pagine, a confronto del quale I Buddenbrook sembra un embrione? Una summa, un puzzle, una storia di famiglia che non risale alla nonna o alla bisnonna, ma al xvi secolo in quelle lande che sarebbero diventate la Mitteleuropa. Péter Esterházy è il discendente dei principi Esterházy d'Ungheria, famiglia di aristocratici vicini a imperatori e re. Quando, nel 1949, il partito comunista impone un regime stalinista, la famiglia di Péter decide di restare piuttosto che andare in esilio.
Il libro è diviso in due parti, la prima parte racconta, in 371 paragrafi, la storia della famiglia dal 1500 in poi mentre la seconda è dedicata alle vicende degli Esterházy a partire dal 1900. Nella lunga carrellata storica, ciascun antenato maschio viene chiamato "mio padre" e, dopo un primo attimo di straniamento, si sprofonda in una storia che da familiare diventa quella di un'intera umanità o, più esattamente, quella della nobiltà mitteleuropea e non solo, che viaggiava, studiava e si sentiva ovunque a casa propria. "La narrazione naturalmente non è lineare, non sarebbe da Péter Esterházy, accanito sperimentatore, vero 'pierino' della letteratura, pronto a sbeffeggiare tutto ma non alieno da autentiche, toccanti commozioni. Anche il titolo del libro alle prime può suonare come una beffa. Prende in prestito quello di una composizione musicale settecentesca di un rampollo della famiglia, musicista dilettante. In realtà la storia di questa famiglia, così com'è raccontata, è quanto di più disarmonico e stridente si possa immaginare. è piena di impiccagioni, decapitazioni, torture, stupri, tradimenti [
]. Ma di questa 'armonia' c'è anche una giustificazione più profonda. Sta nell'irriducibile, irrefrenabile ottimismo dell'autore. Come spavaldo sperimentatore, egli crede profondamente che l'apparente insensatezza delle cose abbia un senso, che tutto il nostro annaspare, anche la più assurda casualità, possa diventare parte di qualcosa, di un disegno." (Giorgio Pressburger)
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