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Libro modesto nel complesso, prosa stucchevole e dolciastra, classica pastiglietta passatempo per chi vuol passare qualche lunga mezz'ora nelle amnesie di altri libri che si metterebbero questo in una manica. Di più aggiungo un'impressione, ascolto in radio l'autore e mi sembra un mezzo snob dal pedigree più impostato che naturale. Si può benissimo non leggere e non ascoltare nulla di quest'autore.
La storia dell'impiegato del call center e quella del "distinto" signore che si confessa con totò mi sno rimaste molto impresse, bellissimo il finale della storia con protagonista l'amante dei cani. Nel complesso originale, ma un po sfilacciato
uN LIBRO SURREALE, DESCRIZIONI DEI LUOGHI, DEI PERSONAGGI E DEI LORO SENTIMENTI COSì SUPERFICIALI E SCONTATE DA APPARIRE QUASI COMICHE. CONTINUO A CHIEDERMI "QUI PRODEST?"
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In principio, la copertina: una volta tanto eccone una capace di suggerire compiutamente un mood, di evocare l'atmosfera, in certi passaggi lirica e rarefatta, in altri cupa e feroce, di questi dodici racconti di Antonio Debenedetti. Racconti di straniante bellezza, sottilmente morali, connessi fra loro da una dissonante omogeneità. Nella suggestiva foto-copertina di Martin Scott-Jupp si indovinano due figure evanescenti, che sembrano progressivamente smaterializzarsi, inghiottite dalla luminosa liquidità di un turchese trasparente. Foto ambigua, a basso tasso di definizione, si direbbe: potrebbe essere un idillio o una tragedia.
Così avviene anche in questi racconti: leggendoli si comprende quanto esile sia la linea che separa il ridicolo dal tragico, l'ironia dalla crudeltà, la commedia dal noir. Si prenda quello intitolato Call center, per esempio. Qui debutta una figura nuova, ma emergente e di sicuro, grande avvenire: l'ascoltone, "il fratello chic del guardone", quello che appartiene alla genìa dei "degustatori morbosi di dittonghi e monosillabi (
) Per non dire poi di certi cocktail di sibilanti e gutturali!". Figura emblematica che suscita ripulsione e pietà, oppressa, come la maggior parte dei protagonisti di queste pagine, da una solitudine immedicabile tanto più stridente e insopportabile nell'epoca della connessione e comunicazione perpetua.
Queste dodici variazioni di Debenedetti sul tema dell'insostenibilità della solitudine e dell'impossibilità della coesistenza (l'autore si comporta nei confronti dei suoi personaggi come fa l'ascoltone per le voci: "le isola, le spoglia, le fotografa, le analizza") hanno protagonisti tutti mediamente borghesi, mediamente annoiati, mediamente inquieti, mediamente grotteschi: di loro si potrebbe dire, mutuando ciò che si attribuisce ai personaggi di Uno più una, che sono "d'una bellezza tranquilla e senza fantasia, al punto che incontrandoli per la prima volta si poteva credere di averli già visti". Tutti sono tormentati da un cerebralismo ossessivo, che rimugina sulle infinite possibilità di uscire dalla gabbia della propria atonia emotiva; alla fine, però nessuno di questa galleria di inetti del nostro tempo riesce ad approdare alla felicità (?) della vita "in due". Piuttosto, si trovano a sperimentare una gamma vasta, più o meno fallimentare, di modelli di coppia. Un catalogo composito ed eterogeneo, quello presentato in questo libro: cucciolo animale e cucciolo umano, vecchio e bambino, vecchio ragazzo e signora in età, coppie storiche in crisi perenne.
Lo sguardo di Debenedetti accarezza queste esistenze catafratte in una specie di narcosi sentimentale ed emotiva, utilizzando uno stile incisivo che adotta parole "forti e frugali". Bene ha fatto La Capria sulle colonne del "Corriere della Sera" a ricordare, quale testo "empatico" a questo di Debenedetti, il Sillabario di Goffredo Parise. Un sillabario della contemporaneità, stavolta, con una particolare predilezione e fascinazione per la presenza del male, che spesso trova, in queste storie, una sua peculiare rappresentazione. È un male anonimo, triste e vacuo come i personaggi che lo maneggiano e usano. Una deriva in cui volentieri cadono queste "esistenze senz'anima" che vivono nell'epoca delle passioni (e degli amori, soprattutto) tristi, soggiogate dall'incommensurabilità dello iato tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe diventare. Nel racconto spartiacque di metà libro, intitolato Totò e il colonnello (un ufficiale pedofilo alle prese con la memoria di un gesto tragico, confessato al cinema al suo "psicanalista" di fiducia, cioè Totò), Debenedetti dà vita a un personaggio assolutamente cupo e nero, dalle tinte dostoewskiane che si stacca in modo netto dagli altri e mette in sordina quell'impasto di humour, grottesco e bêtise che dominava incontrastato su tutti gli altri racconti. Pagine nere e crudeli, queste, di una ferocia inusitata che lascia il segno. Linnio Accorroni
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