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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 2016
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Forse tra i libri che mi hanno più colpito in assoluto. Quei libri che si vorrebbe riporre in uno scaffale assoluto, in un luogo dell'anima. Un libro che si vorrebe ritrovare nel tempo, così come la nostra anima chiede di essere ritrovata, ritrovata nei suoi luoghi. La consapevolezza, la memoria, la poesia. Poesia che si fonde alla scrittura di prosa e a quella filosofica, come una sintesi di pagine ritrovate dai recessi del tempo. Il tempo della nostra vita, che non riusciamo a comprendere. Siamo accompagnati, lungo queste pagine, in percorsi misteriosi. A riaprire gli occhi ai tesori familiari e quotidiani. Queste parole semplicemente a esprimere un ringrazimento Thank you for your love...
Recensioni
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recensione di Nadotti, A., L'Indice 1998, n. 6
"Ero così affamato. Urlai nel silenzio l'unica frase che sapevo in più di una lingua, l'urlai in polacco e in tedesco e in yiddish, battendomi i pugni sul petto: sporco ebreo, sporco ebreo, sporco ebreo". Così emerge dal fango in cui è rimasto nascosto per settimane, nella foresta di Biskupin, Polonia 1941, il piccolo Jacob Beer, protagonista del romanzo di Anne Michaels. E sporco e terrorizzato come è si aggrappa all'archeologo Athanasios Roussos che, stringendoselo al petto sotto la pesante palandrana, lo porta con sé in Grecia, sull'isola di Zante, dove aiutandolo a non dimenticare né la sua lingua né l'orrore cui ha assistito, gli offre la possibilità di "una seconda storia", in cui il passato, per doloroso che sia, non venga rimosso, bensì ostinatamente ricordato, perché possa fargli compagnia e assicurargli un futuro intero, "perché se uno non ha più la terra ma ha il ricordo della terra, allora uno può sempre disegnare una mappa".
Così inizia il primo romanzo di Anne Michaels, affermata poetessa, nonché pianista e compositrice canadese. Un romanzo bellissimo, se mi è concesso anticipare un giudizio, di cui il titolo originale, "Fugitive Pieces", meglio di quello italiano suggerisce le implicazioni storiche e la struttura narrativa. Come rileva anche Francesca Romana Paci nella postfazione, il titolo originale "si riferisce tanto agli esseri umani in fuga, quanto a "pezzi" narrativi (biografie e frammenti di biografie), assimilati a pezzi musicali, che si succedono come le parti di una struttura musicale fugata".
Ma chi è il piccolo polacco impaurito Jacob Beer? Chi è il suo salvatore Athanasios Roussos? Chi sono Michaela, Kostas e Daphne, Salman, Ben e Naomi? Chi è Bella? I loro nomi non compaiono né compariranno nel "Libro della memoria" perché non furono, non sono, persone reali, eppure accade di rado che un romanzo storico, ma anche romanzo di formazione e straordinaria "biografia del desiderio e della nostalgia", ricostruisca con altrettanta lucidità e con un andamento così intensamente poetico, scandito su vite immaginarie soltanto nei nomi, un arco di tempo che è quello della nostra stessa vita, quella metà del secolo breve che ha visto il secondo conflitto mondiale, l'olocausto, la diaspora, molteplici diaspore, il ricrearsi in mondi nuovi di antichi microcosmi comunitari miracolosamente scampati a deportazioni e massacri.
Colpisce, nel documentatissimo "romanzo in due parti" di Anne Michaels, il legame che ciascun personaggio ha con il passato, l'amoroso attaccamento alla vita che unisce i vivi ai morti, che tiene strette tra loro le generazioni, che dà un senso agli oggetti, testimoni muti eppure parlanti di quelle vite. Jacob, orfano di padre, madre e sorella, continua a sentirne le voci, la risata, l'odore delle mani, a sua sorella continua a cedere il passo ogni volta che si trova a varcare una soglia, a offrire non visto il boccone migliore, disposto a precipitare nell'ossessione pur di serbarne il ricordo dentro di sé, per poterlo un giorno tramandare. E Athos, suo "koumbaros", padrino - non padre adottivo, sottolinea l'autrice e voglio sottolinearlo anch'io, bensì qualcuno che si affianca al padre in caso di necessità, per tradizione dunque amico di entrambi -, lo asseconda. Il dolore richiede tempo e l'amore lo lenisce non perché aiuta a dimenticare, bensì perché sostiene di giorno le memorie di chi di notte è sopraffatto da incubi che pure gli appartengono.
Athos, il paleontologo che ricostruisce il tempo di preistoria e storia leggendo la torba e l'arenaria, che ricompone lo spazio da infiniti indizi terrestri e marini, l'umanista che si tormenta per l'urgenza di spiegare come i nazisti avessero abusato persino dell'archeologia per costruire un passato fittizio, Athos sa bene che "siamo fatti della stessa stoffa di cui son fatti i sogni" e sciorina uno straordinario repertorio di racconti, un gioco inesauribile in cui l'adulto e il bambino si scambiano "parole nuove come cibo straniero (...) addentrandosi in un territorio di sempre maggiore tenerezza", fino a che il linguaggio cesserà per Jacob di essere un addio diventando lo strumento parziale di un io ancora indolenzito e guardingo, e più tardi lo strumento prezioso che farà di lui un traduttore e un poeta. "Il poeta parte dalla vita per arrivare al linguaggio, il traduttore parte dal linguaggio per arrivare alla vita" riflette l'autrice con la voce del migrante Jacob, davvero un uccellino ammutolito quando approda, e rinasce sulle rive di Zante di tra le pieghe del cappotto di Athos.
Qualche anno dopo, quando insieme migreranno in Canada - un mondo totalmente nuovo dove peraltro subito Athos rinviene nelle pietre e negli alberi i segni di una vita millenaria, implicitamente negando ogni essenzialistica gerarchia tra i continenti -, Jacob, nella sua risalita alla vita attraverso il linguaggio, fa una scoperta: "L'inglese poteva proteggermi. Un alfabeto senza memoria. Come se l'avesse deciso l'accuratezza storica, a Toronto, il quartiere greco circondava quello ebreo. Quando scoprii per la prima volta il mercato ebreo, ebbi un soprassalto d'angoscia (...) dalla bocca del venditore di formaggi e del panettiere usciva la lingua ardente della mia infanzia. Consonanti e vocali: paura e amor intrecciati (...) Guardavo qui vecchi coi numeri tatuati sul braccio. Quanto gli doveva sembrare irreale tutto quel cibo (...) Dalle loro gabbie di legno i polli guardavano fisso, come se fossero gli unici a capire l'inglese e non riuscissero a decifrare quella babele intorno a loro".
Da una lingua a un'altra a un'altra, dalla notte al giorno, dal filiale amore per Athos, suo materno "koumbaros", alle amicizie adulte e intense, all'amore totale per Michaela, "il suo cuore un orecchio, la sua pelle un orecchio", seguiamo la rinascita di Jacob in un itinerario affettivo e corporeo che va oltre la sua stessa vita. Della seconda parte del romanzo, breve e ardito artificio letterario, sarà protagonista infatti il giovane studioso Ben "non da Benjamin, ma 'ben' e basta, la parola ebraica per 'figlio'", che seguendo un percorso a ritroso, da Toronto a Zante, errando tra parole e oggetti nella casa dell'amato poeta Jacob Beer, rinviene - con l'aiuto di un'occasionale quanto simbolica mano femminile - le tracce che gli consentono di afferrare il filo di una memoria resa necessaria da un'ininterrotta catena di affetti.
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