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"Sapere aude" consigliava Quinto Orazio Flacco a un amico (Epistolae, I, 2, 40). E oggi, nella società della conoscenza e dell'informazione di massa, quell'invito risulta essere, paradossalmente, quanto mai prezioso. Immanuel Kant lo fece proprio nel Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, al fine di indicare con un motto quale fosse il significato di Illuminismo. Occorreva del resto uscire da uno stato di minorità attraverso la conquista di una capacità di giudizio autonomo e critico. Sono passati più di due secoli e in quello stato di minorità sembra di essere ripiombati, sommersi come siamo da possibilità imprevedibili di sapere e notizie, quasi incapaci di discernere verità e menzogne.
Sono molti, in barba al cosiddetto analfabetismo di ritorno, a ritenere di possedere adeguati strumenti di riflessione. Gli intellettuali non servono più, o, meglio, in molti si proclamano, più o meno esplicitamente, intellettuali. Se la parola è recente (entrata nel linguaggio giornalistico e politico a partire dal 14 gennaio del 1898, nel contesto dell'affaire Dreyfus, allorché la redazione del quotidiano "L'Aurore" intitolò Manifeste des intellectuels una lettera aperta al presidente della Repubblica francese), la figura dell'intellettuale può trovare le proprie scaturigini molto indietro nel tempo. Nel volume collettaneo Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria si risale fino all'età medievale, allo scopo di delineare, "sia pure per sondaggi, ma in termini sufficientemente ampi e soprattutto critici come scrive Angelo d'Orsi, un percorso di formazione del ceto intellettuale, con approfondimenti su singole figure, o su professioni, o su gruppi sociali, in una dimensione sovranazionale, che costituisce da sempre uno degli elementi qualificanti del lavoro scientifico della Fondazione Salvatorelli", promotrice di questa pubblicazione. Dal medioevo all'età moderna, dai Lumi alla Grande guerra, passando attraverso il periodo dell'entre deux guerres, fino a giungere al secondo dopoguerra e ai decenni a noi vicini, i trentadue saggi raccolti offrono un quadro storico che sembra non avere eguali tra le opere sul tema finora realizzate anche fuori d'Italia.
Per quanto si possa andare a ritroso, il contrasto tra politica e cultura trova nel Novecento la sua esasperazione, con il contestuale concepimento del ruolo sociale degli intellettuali e della pratica dei manifesti collettivi e pubblici. Detto in altri termini, una parte della società civile si organizza in gruppi di pressione che, attraverso l'autorità culturale riconosciuta alla propria capacità professionale, interviene pubblicamente per esprimere alle autorità politiche una protesta contro alcune decisioni non condivise. Se la precondizione è l'attività lavorativa fondata su predominanti capacità mentali, occorre però un autoriconoscimento e un eteroriconoscimento dell'intellettuale, affinché esso possa essere tale. Come mette bene in luce d'Orsi nell'introduzione, "non si può essere intellettuale senza fare l'intellettuale", il quale, dunque, "non può che essere impegnato". La verità, soprattutto, e la giustizia, costituiscono i suoi punti di riferimento, ma nel secolo in cui le idee hanno generato sistemi di pensiero atti a promuovere la prassi spesso il suo ruolo di sacerdos veritatis è stato da lui dimenticato, a vantaggio di ideologie e a sostegno di propagande. "Puisqu'ils ont osé, j'oserai aussi, moi. La vérité, je la dirai, car j'ai promis de la dire, si la justice, régulièrement saisie, ne la faisait pas, pleine et entière" scrisse, invece, nel celeberrimo J'accuse Émile Zola, che per questo e il conseguente impegno pubblico arrivò a perdere la vita.
È chiaro che la questione degli intellettuali sia fondamentale nella storia del XX secolo e al cuore della stessa questione sembra essere come emerge da diversi saggi contenuti nel volume l'opportunità o meno dell'appartenenza politica di un intellettuale che voglia restare fedele a se stesso e, dunque, alla funzione critica e autonoma che lo deve contraddistinguere. Il rischio, com'è evidente, risulta essere quello di vedere intellettuali che, aderendo a una parte politica, si trasformano in strumenti di consenso, al fine, più o meno esplicito e consapevole, di generare mezze verità, quand'anche menzogne. Le sirene dell'appartenenza politica hanno affascinato e affascinano spesso gli intellettuali, ma, se l'espressione "intellettuale impegnato", osserva sempre d'Orsi, è un pleonasmo, "intellettuale non impegnato" è una contraddizione in termini, come, occorre aggiungere, sembra esserlo "intellettuale di partito": la forma difficilmente si scinde dalla sostanza.
Quale, dunque, il destino degli intellettuali? Ad altre domande attinte dalla storia si affida la risposta, che non può prescindere, comunque, dalla parola greca parresia (dire tutto, il che corrisponde a dire la verità).
Davide Cadeddu
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