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recensione di Bobbio, N., L'Indice 1997, n. 9
Il titolo è generico. Il contenuto reale dell'intervista non è ciò che pensa Eugenio Garin sul ruolo degli intellettuali in genere, ma riguarda in particolare il periodo di storia da lui medesimo vissuta, dal primo dopoguerra a oggi. Il discorso è prevalentemente autobiografico.
A una riflessione generale sull'intellettuale è dedicato esclusivamente il primo capitolo, nel quale Garin sostiene che l'intellettuale, per assolvere alla propria funzione specifica, non può non prendere parte alla vita civile del proprio tempo. Se non lo fa è "come mutilato". I primi esempi li trae dalla storia dell'umanesimo, che gli è particolarmente familiare, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni, per poi passare agli illuministi e ai contemporanei italiani, tra i quali primeggia Benedetto Croce, "l'intellettuale al quale io - e tanti altri con me - ho guardato più spesso consentendo e dissentendo, ma idealmente discutendo con lui". Poco più oltre: "Ho sempre sentito di avere un gran debito verso Croce e oggi, alla fine del secolo, lo sento ancora di più. Ripensando a lui a distanza, la sua statura cresce, non diminuisce".
Quando mi sono imbattuto in queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare che la mia collaborazione agli studi in suo onore è consistita in un saggio, che ho voluto intenzionalmente intitolare "Il nostro Croce", in cui riprendevo con analoghi accenti il tema di Croce maestro di libertà negli anni del fascismo. Non potrei dire altrettanto nei riguardi di Gentile, verso il quale Garin, sebbene amareggiato per la di lui adesione alla Repubblica di Salò, come del resto tutti coloro che avevano sperato sino all'ultimo in un rifiuto del filosofo di rendere omaggio al fascismo alleato di Hitler, afferma di essere debitore al "filosofo e storico grande" e di essergli grato per la "sua coraggiosa umanità". Per quanto io abbia fatto ammenda del giudizio troppo aspro dato sul filosofo e sull'uomo subito dopo la Liberazione, non posso dimenticare alcuni episodi della sua vita di fascista integerrimo: per esempio, la durezza con cui giudicò i discorsi su cultura e libertà che due filosofi antifascisti, De Sarlo e Martinetti, cari allo stesso Garin, pronunciarono al VI Congresso di filosofia, svoltosi a Milano nel marzo 1928 e sciolto d'autorità dal prefetto.
Tuttavia le affinità elettive e la comunanza di opinioni fra Garin e me, nonostante la disparità dei nostri studi, sono molte, e non sono mancate occasioni per riscontrarle. Qui noto che, avendo tempo addietro riassunto il mio ideale di intellettuale nella formula "indipendente, ma non indifferente", mi ci sono ritrovato là dove nelle pagine introduttive Garin afferma che altro è l'impegno dell'uomo di cultura e altro quello dell'uomo politico: "Se è necessario per l'uomo di cultura un chiaro orientamento politico è anche auspicabile che non sia legato a vincoli di precise obbedienze a partiti politici organizzati". Sul ruolo degli intellettuali Garin ricorda il suo debito di riconoscenza a Gramsci: un Gramsci che considera come interlocutore privilegiato Croce sul tema fondamentale, pur considerato da prospettive opposte, ma non incompatibili, della liberazione dell'uomo: "Certo si muoveva nell'ambito del marxismo, ma con ammirevole libertà intellettuale". Più Gramsci che Gobetti, mentre se dovessi parlare di me, dovrei dire più Gobetti che Gramsci.
Inevitabile il discorso su quali siano le conseguenze delle comunicazioni di massa, in specie della televisione, sull'azione degli intellettuali della nostra generazione: Garin e io siamo coetanei e siamo inclini a considerarla generalmente nefasta. Rare le sue apparizioni sul video, come le mie, del resto. Saggiamente, a mio parere, Garin osserva che in questo periodo di trasformazione profonda, "il compito degli intellettuali assai più che di entrare poco felicemente nella società dello spettacolo, sia quello di insistere responsabilmente sul tema vitale della formazione dei cittadini".
Sul tema, ampiamente discusso in questi ultimi anni, del rapporto fra fascismo e cultura, pur ammettendo, come io stesso ho avuto più volte occasione di sostenere, che il fascismo non abbia elaborato una originale cultura reazionaria, ritiene errato, "assurdo", contrariamente alla tesi da me sostenuta e ripetutamente contestata, che il fascismo non abbia avuto alcuna influenza sulla cultura nazionale, il cui corso non avrebbe subito mutamenti, come se il fascismo non fosse esistito. Ritiene anzi che questa tesi abbia facilitato coloro che dopo la caduta del regime si dettero da fare per affermare che non c'era niente da cambiare e tutto sarebbe andato avanti ordinatamente come prima.
Non oso insistere e a ogni modo non è il caso di farlo in questa sede. Osservo però che proprio nel campo degli studi che Garin e io abbiamo coltivato, gli studi filosofici, il capitolo di una qualsiasi storia della filosofia, negli anni del regime, dedica presumibilmente il maggior numero di pagine a filosofi come Croce, Martinetti, il Rensi della maturità, per cui il fascismo non ha contato nulla se non come occasione di reazione polemica.Si pensi alla "Storia come pensiero e come azione" di Croce, a "La libertà" di Martinetti, alle ultime opere di filosofia scettica di Rensi. Nulla di diverso, del resto, si può leggere sullo stesso Gentile, la cui originale elaborazione filosofica si era conclusa con la "Teoria generale dello spirito come atto puro", che è del 1916. Per quel che riguarda la nuova generazione che pur si era formata durante il regime, nella stessa storia della filosofia troveremo nomi come quelli di Geymonat e di Colorni, il cui orientamento filosofico si era sviluppato proprio "come se il fascismo non esistesse". Da uomo del secolo, che ha insegnato per cinquant'anni in giro per l'Italia - laureato precocemente in filosofia a Firenze cominciò il suo insegnamento ventenne in una scuola di avviamento al lavoro di Fucecchio -, Garin è spaventato e sdegnato del "disastro" della scuola italiana. Al tema della riforma della scuola, sempre annunciata e sempre rinviata, è dedicato uno dei quattro capitoli del libro: alla scuola, concepita eminentemente come scuola di cultura per il suo "valore liberatorio, al di là di ogni specialismo e di ogni tecnicismo", intesa la cultura "come conquista di una più profonda coscienza di sé, delle proprie radici, delle dimensioni storiche in cui si vive e si è chiamati ad operare". Un ideale di cultura, in cui scienze umane e scienze naturali, contrariamente alle tesi antidealistiche e filopositivistiche espresse animosamente da Giulio Preti, si integrano a vicenda, secondo l'ideale rinascimentale, che "gli eredi del Concilio di Trento hanno sistematicamente combattuto e soffocato".
Il senso del "disastro" si è anche ingigantito nella memoria di una generazione entrata nella nuova era, che sperava si aprisse dopo la caduta del fascismo e la fine di una guerra atroce, con la convinzione che ne dovesse seguire un radicale rinnovamento delle istituzioni e del costume. La riforma dell'università fu per anni oggetto di una discussione appassionata e convinta.Iprogetti si succedettero ai progetti, ognuno col nome del ministro proponente, a cominciare da Guido Gonella. Tutto rimase sulla carta. Le poche riforme attuate furono fatte in fretta e furia, senza un piano generale, per effetto della tumultuosa stagione del Sessantotto. Alla domanda dell'intervistatore: "Da quando l'università ha cominciato a non svolgere il suo ruolo?", Garin risponde desolatamente: "Dal momento in cui, e questo fu molto presto, si decise di non fare nulla". E subito aggiunge: "Nulla sul serio". Ricordando che oggi si tende a ricondurre ogni malanno alla "dittatura della cultura di sinistra", invita giustamente, se pure maliziosamente, a tener conto del "costante colore politico dei ministri della Pubblica Istruzione".
Tuttavia, pur riconoscendo che la rivolta studentesca del Sessantotto sia stata la necessaria conclusione di una politica "sbagliata e colpevole", Garin si era schierato, come ricorda l'interlocutore, dall'altra parte, abbandonando polemicamente nel 1974 l'università fiorentina per rifugiarsi nel buon ritiro della Scuola Normale Superiore di Pisa, e deplorando i cedimenti del Partito comunista alla "demagogia giovanilistica".
Riesumando un noto discorso tenuto il 3 giugno 1960 in occasione di un convegno delle riviste di sinistra, "La cultura e la scuola nella società italiana", pubblicato subito dopo da Einaudi, Garin lamenta la continuità tra il prima e il dopo. Ne attribuisce la responsabilità in parte anche agli intellettuali della sinistra moderata, tanto da essere accusato da Vittorio de Caprariis su "Il Mondo" di essere un disciplinato portavoce della politica culturale del Partito comunista. Però ricorda che il suo discorso era stato pronunciato alcuni mesi dopo l'episodio del governo Tambroni, che per ottenere la maggioranza aveva avuto bisogno del voto determinante del Msi, un episodio che aveva risuscitato l'antifascismo militante. De Caprariis nella sua requisitoria aveva evocato il celebre "Manifesto degli intellettuali antifascisti" di Croce. Ma contro chi era rivolto, se non contro gli intellettuali fascisti che avevano aderito al precedente Manifesto Gentile? Il comunismo, che c'entrava?
Successe allora quello che si è ripetuto infinite volte, anche dopo, sino ai nostri giorni. Potevano mai gli antifascisti evitare l'accusa di essere stati alleati dei comunisti, da parte di coloro che se ne erano lavate le mani e avevano atteso, inerti, di applaudire il vincitore? L'anticomunismo radicale dei benpensanti non avrebbe finito per tenere in vita, come è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, il fascismo? Si obietta: ci voleva molto a capire che occorreva una buona volta decidersi ad andare al di là dell'antifascismo e dell'anticomunismo per avviare il nostro paese verso una democrazia compiuta? Ma per chi aveva combattuto sullo stesso fronte contro il fascismo, insieme con i comunisti che ne erano stati militarmente la parte di gran lunga preponderante, era possibile mettere sullo stesso piano del rifiuto fascismo e comunismo?
Pongo questa domanda non solo a Garin, ma a me stesso, perché anche a me è accaduto di affermare, come Garin: "Cieco chi crede cancellata la rivoluzione di ottobre e le sue conseguenze nel mondo" e sostiene ora "la piena corrispondenza tra comunismo e nazifascismo, fra stalinismo e hitlerismo quali reazioni autodistruttive della società liberale".
È la risposta di chi, pur ammettendo l'errore degli intellettuali di sinistra, anche non comunisti, nel non aver saputo riconoscere la natura dello stalinismo, e di aver chiuso un occhio o tutti e due sui suoi misfatti e nell'averli, con vari argomenti storici e teorici, giustificati, ha vissuto drammaticamente la disfatta del paese, che fu la disfatta del fascismo, la disfatta di un paese "che per primo inventò e sperimentò il fascismo, che combatté la seconda guerra mondiale a fianco del nazismo, facendone proprio, dal '38, perfino l'infame razzismo". E avremmo dovuto anche dimenticare, aggiunge Garin a ragione, le responsabilità della vecchia classe intellettuale e politica liberale che tollerò il fascismo e l'aiutò al suo nascere come salutare reazione alla paventata rivoluzione sociale?
Tornando per finire al tema generale del ruolo degli intellettuali, di cui ho parlato all'inizio,Garin non dimentica nelle ultime pagine anche l'intellettuale che alcuni anni or sono in un discorso sul tema chiamai "tecnico", in contrapposizione a quello "ideologico", là dove loda gli interventi ripetutamente pronunciati da Giovanni Sartori sulla riforma della Costituzione. Che poi questi interventi siano stati ascoltati, è un altro discorso. Lo stesso Sartori, appresi i risultati dell'Assemblea bicamerale, che aveva avuto il compito di elaborare il progetto della nuova costituzione, non ne è stato per nulla soddisfatto, e, insieme con altri noti costituzionalisti, vale a dire altri, come lui, "tecnici", non ha dato un bel voto al progetto. Resta ancora una volta vero che l'intellettuale propone e il politico dispone.
Non ho mai avuto dubbi sulla complessità del tema riguardante il problema del rapporto tra intellettuali e politici. Questo nuovo intenso dialogo tra un intellettuale ben consapevole del proprio compito e severo con se stesso, come Eugenio Garin, e il suo interlocutore ne è un'ulteriore prova.
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