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Carlo Bordoni, docente universitario ed autore di diversi libri, in "Istanbul bound" racconta la storia di una vecchia nave diretta ad Istanbul e del suo viaggio verso l'ignoto. Il giovane mozzo, voce narrante, inizia il racconto descrivendo la fotografia della città che il vecchio bastimento mercantile si preparava a raggiungere, dopo un lungo viaggio per mare. Un viaggio che il giovane descrive nei suoi rumori, aspettative, attese, sogni. Momenti dedicati alla lettura e alla redazione di un diario, su cui tracciare parole dettate dalla fantasia e dalla consapevolezza di andare, di muoversi comunque. La nave vola verso Istanbul, spinta dai desideri e dalle aspettative dei i suoi marinai, che si adattano ai suoi spazi e ai suoi ritmi. Tra loro il capitano, che sogna di trovare Ferdinandea, un'isola non segnata sulle carte, un'isola felice e soleggiata su cui trascorrere gli ultimi anni della sua vita. Ed è cercando quest'isola che il mercantile si imbatte in una tempesta. "Questo "Istanbul Bound" - si legge nella prefazione - mi ha lasciato la bocca amara per il finale inatteso: quando si dà un titolo del genere, il lettore ha tutto il diritto di aspettarsi che a Istanbul ci arrivino, bene o male, pur con tutti gli inconvenienti e gli inghippi che un viaggio sull'acqua puó presentare. Invece qui tutto si ferma all'improvviso, sulla cresta di un'onda" (cdg).
Quando ci si fa scrivere – è il caso del secondo romanzo di Carlo Bordoni – la presentazione di un proprio romanzo nientepopodimenoché da Teodor Józef Korzeniowski (che è assai meglio noto come Joseph Conrad. ma tant’è…) vuol dire che si ha qualcosa di grosso da nascondere. O meglio – si può dire che in un tale romanzo l’evidenza dei fatti da nascondere è talmente tale che l’unico modo sicuro per farlo è rivelarli, renderli manifesti, palesi, dichiarati, di fronte agli occhi. Korzeniowski si lamenta di essere costretto ad un compito che non gli è congeniale, epperò alla fine confessa che il romanzo (almeno in parte) gli è piaciuto anche se poi obietta che : “Però, diciamo la verità, i miei romanzi di mare e di costa erano tutt’altra cosa” (p. 8). Senza voler per ora scendere (o trascendere) a giudizi di valore, bisogna dire subito che è vero. Eppure l’incipit del romanzo, la situazione di partenza, la causa scatenante dell’effetto narrativo che seguirà sono di quanto più conradiano si potesse inventare (o estrarre da quella sostanza della memoria personale di cui quasi sempre sono fatti i sogni della letteratura). Il fantastico esplode così, di colpo, con il lampo senza tuono che contraddistingue la verità perentoriamente acquisita riguardo la natura ambigua e dialettica del Possibile che attende al di fuori della realtà consueta e pre-definita di ciò che soltanto siamo abituati a considerare tale. Il finale aperto del libro (come quello del "Gordon Pym" di Poe) allude certo ad un suo possibile oltre, ad un Altrove assoluto dove la vita e la morte si congiungono in un continuum spazio-temporale fantastico e radicalmente altro. Si tratta di un luogo da cui non esiste possibile ritorno e nel quale il mistero dell’esistenza non è più tale – il luogo assoluto (forse) in cui la letteratura celebra il suo trionfo sulla morte in nome di quelle “intimazioni di eternità” di cui, secondo Wordsworth, consisteva la verità esatta della poesia e del Tempo. Giuseppe Panella
Dopo le prime pagine avevo tratto la convinzione di trovarmi di fronte a un romanzo che aveva attinto ispirazione dal celeberrimo Moby Dick o da qualche narrazione di Joseph Conrad. In effetti sono presenti elementi che convaliderebbero questa mia impressione: la ricerca spasmodica di un’isola misteriosa, un sogno/incubo del capitano Beltramino divorato da questa ossessione, le lunghe giornate a bordo, ripetitive, tranne quando le forze della natura si scatenano, la descrizione intensa dell’equipaggio, di rudi uomini di mare visti dagli occhi stupiti del giovane mozzo al suo primo imbarco. E invece Istanbul Bound è un romanzo dotato di propria autonomia ed è la descrizione di un viaggio, effettuato nell’imminenza della seconda guerra mondiale, da Massa a Istanbul, località a cui la nave non arriverà mai in un finale del tutto imprevedibile, ma frutto di una geniale invenzione dell’autore che, nelle ultime pagine, ha profuso a piene mani un’indubbia eccellente creatività. Del resto, anche prima, ci sono delle felici intuizioni, una sorta di stacchi temporali che evitano che la narrazione possa appiattire, così che il lettore abbia a godere un po’ di rilassamento, astraendolo momentaneamente da una lenta, ma crescente suspence. In effetti, come ne Il deserto dei tartari, si ha viva l’impressione che da un momento all’altro la quasi noiosa calma apparente possa subire un’improvvisa lacerazione, come accade poi alla fine. Ben scritto, con un’analisi accurata dei personaggi, con delle riflessioni e approfondimenti di pregevole livello (raccomando di leggere con attenzione quella relativa alla guerra), Istanbul Bound è un romanzo che merita di essere letto.
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