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recensione di Bini, G., L'Indice 1996, n. 8
L'editore Argo pubblica i materiali d'un convegno di pedagogisti svoltosi all'Aquila nel 1994 sulla laicità della scuola. Nel dibattito si riflettono i temi d'un intenso travaglio e d'una ricerca che ci viene dal secolo scorso e ha attraversato gli ultimi cinquant'anni di storia culturale e politica.
Un gruppo d'interventi è dedicato a una definizione o ridefinizione del concetto di laicità. Qualcuno (Spadafora) in sede di rielaborazione storica si rifà al dibattito del principio del secolo fra gl'insegnanti secondari e sembra concedere eccessiva dignità alle capriole dialettiche di Gentile, che iniziò difendendo la laicità e concluse proponendo l'insegnamento religioso nella scuola "del popolo e dei fanciulli" (in un certo senso lo richiama anche Mauro Laeng: non tutte le religioni si equivalgono; tanto vale insegnarle a partire da quella "maggioritaria"). Alcuni interventi (Rosella Frasca, Angela Giallongo, Franco Cambi) affrontano temi di carattere storico, dall'antichità romana ai giorni nostri. Bruno Bellerate è fra i tanti che mettono in relazione laicità e democrazia.
A queste voci si possono aggiungere quelle di Franca Pinto Minerva, per la quale laicità è opposizione a "ogni concetto autofondato e sostanzialistico della razionalità e dell'agire umano" e a "ogni concezione totalizzante e onnicomprensiva" e dialogo con le altre culture; di Piero Bertolini che dice laico chi "non ha paura di sporcarsi le mani con il diverso" e di "meticciarsi" andando oltre la difesa del diritto di ciascuno alla propria identità culturale; di Aldo Visalberghi che rammenta il diritto a professare la propria religione a condizione che si rifugga dal fondamentalismo e si aderisca al "postulato" dell'uguaglianza delle persone. Anche Angelo Semeraro insiste sulla laicità considerata positivamente, ma riconosce che è una concezione ormai in crisi, com'è in crisi il concetto d'una scuola come "luogo in cui si apprende a essere liberi, solo sottoponendosi a quell'autorità che è la ragione, dove l'unica costrizione ammessa è quella dello sforzo personale ad apprendere".
Per Lamberto Borghi la laicità sta come momento forte d'una tradizione che viene da Locke, Spinoza, Bruno e nel nostro secolo riceve un grande apporto da John Dewey, dalla sua fiducia nel "potere liberatorio della cultura", dal suo rifiuto del pensiero "assolutista".
Non è, però, un tranquillo dibattito teorico e storico; vi si sente la consapevolezza che la laicità è davvero in crisi. Si è avuta qualche giustificata affermazione d'intransigenza: se la laicità è "spirito scientifico", "libera ricerca", pratica del dialogo come metodo e come valore, totale indipendenza da condizionamenti ideologici, costume democratico (Bonetta), perché le famiglie laiche mandano i figli alla scuola confessionale senza curarsi che in esse "la libertà di coscienza sia programmaticamente limitata dal dichiarato suo carattere" e ciò sia una "violazione della persona"? (Laporta). La domanda certamente non apparirebbe drammatica a chi consentisse con Alberto Granese che in un saggio di pedagogia ultra-teorica cerca di negare senso allo stesso concetto di laicità o almeno valore e significato alla discussione. Il laicismo gli pare una categoria da "mettere a riposo". Ciò che in essa vi era di valido è assorbito dal pensiero critico, il solo capace di evitare l'"oscurantismo laico" che qualche decennio fa ha impedito, con l'ideologismo neoilluminista, neorazionalista e neopositivista, di entrare in contatto con l'ermeneutica e la teologia (scienza laicissima dice di quest'ultima, che si sviluppa autonomamente secondo una logica sua propria e risponde solo a se stessa).
Gli altri non la pensano così, e alla domanda se ha senso parlare di laicità rispondono di sì se laicità significa affermare che nessuno può essere escluso dalla scuola per ragioni ideologiche, politiche, religiose, etniche e in essa non possono entrare che "i saperi, scientificamente fondati, che possono essere usufruiti da tutti" (Genovesi). Saverio Santamaita al termine d'una lunga rassegna delle posizioni ufficiali della Chiesa ricorda che ancora recentemente è stato affermato che nelle scuole cattoliche è lecito licenziare insegnanti che non aderiscano alla "cultura dell'istituzione".
Anticlericalismo? Sì, ammette Manacorda: come risposta al clericalismo e all'integralismo. O forse è soltanto, come dice Santoni Rugiu, un rimanere all'interpretazione letterale della Costituzione, cosa che gli è stata rimproverata da persone di sinistra. Perché il punto è sempre quello: nessuno fra i partecipanti al convegno avrebbe obiezioni a un insegnamento religioso non confessionale nella scuola di tutti: del significato che ha la religione nella cultura dei popoli e nell'esperienza personale (e anche, a pari dignità, l'esperienza areligiosa). Ciò che più o meno tutti respingono è che la scuola confessionale, per principio non laica e quindi non aperta a tutti perché chi v'insegna o vi studia deve aderire ad alcuni princìpi di fede, possa essere finanziata dallo stato. È un'antica posizione politica, non di pedagogia ultrateorica, di ermeneutica o di teologia, ed è stata discussa in Europa e in America da quando esiste un sistema pubblico d'istruzione. La posizione laica, che viene dalla cultura democratica e liberale e del movimento operaio (Marx fu il più radicale oppositore d'una scuola in cui comparissero contenuti interpretabili ideologicamente), si ritrova nell'ispirazione di fondo della nostra Costituzione.
Ma, come dice Franco Frabboni, bisogna inserire la scuola privata in un "sistema formativo integrato" a condizione che aderisca ai programmi nazionali. Una volta nessuno a sinistra, se si esclude un lontano exploit di Claudio Martelli, avrebbe accolto questa richiesta tipicamente democristiana. Ora pare la posizione dell'Ulivo: il ministro Berlinguer, assai mutatus ab illo, ha detto nel giugno scorso a un'assemblea d'insegnanti di sinistra: o passa questa proposta o ne passa una peggiore, per la quale è già pronta la maggioranza in parlamento. Ma non aveva vinto il centro-sinistra?
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