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La lente scura. Scritti di viaggio - Anna Maria Ortese - copertina
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Descrizione


Anna Maria Ortese ha sempre viaggiato, per necessità, ma soprattutto per un innato nomadismo che la conduce da un treno all'altro, in una fuga che è una "scommessa pazza" perché è guidata solo da "certi segni misteriosi, come paletti affioranti dalla laguna". Gli articoli e i resoconti di viaggio sono spesso filtrati da una "lente scura", un fosco cristallo di "malinconia e protesta" che carpisce alle cose una "visione buia". Uno sguardo sulle cose che le mostra come non avremmo saputo, o voluto, vederle. Da Roma a Genova, dalla Russia del 1954 alla Napoli del 1961, da Parigi a Montelepre, sempre la lente scura fa affiorare verità inaccettabili e dolorose.
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Dettagli

2004
29 settembre 2004
501 p., Brossura
9788845918964

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fiume95
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Una splendida analisi della natura umana e del suo rapporto con l'universo. A tratti filosofico a tratti poetico, di sicuro un testo prezioso con una scrittura che ti rapisce. La Ortese è una scrittrice con una grande sensibilità unita ad una lucidità mentale capace di analizzare argomenti profondi con semplicità e consapevolezza. Un prezioso tesoro, imprescindibile per chi voglia capire chi sia stata Anna Maria Ortese e quale il suo contributo alla letteratura italiana del secondo Novecento. Una volta letto questo non ne potrete fare a meno di leggere tutta l'opera della scrittrice. Capolavoro.

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MecoMonster
Recensioni: 5/5

Il 27 aprile pioveva continuamente Napoli punto il cielo era grigio sul porto quasi deserto, e su piazza Plebiscito brulicante di colombi, con la facciata del palazzo reale misteriosamente placida, inerte. Questo è un libro che parla di malinconia, passato vissuto nel incentrarsi delle azioni compiute, ogni tanto nella prosa di Anna Maria Ortese si intravede qualche briciola di luce grazie al suo linguaggio così ampiamente profondo è un momento dopo come una pietra cadente spiana con la sua penna sulla tristezza di una chiesa. Leggere questo libro è come guardare sui manifesti dei defunti, la prosa di questa donna non è di questo mondo e questi reportage di città in città lo attestano in modo gravoso a piombare sulla letteratura italiana del Novecento; è un libro densissimo di significato, ve lo consiglio a tutti.

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mario95
Recensioni: 5/5

Non ho difficoltà a immaginare Anna Maria Ortese, il volto coperto da un paio di lenti scure, in viaggio lungo le strade di ferro, d’asfalto e di terra battuta della penisola italiana e del continente europeo, quasi le ultime immagini che la ritraggono, ormai anziana, nella casa di Rapallo abbiamo soppiantato per sempre, nella mia immaginazione di lettore, le pupille di triste e sognante attesa che immortalano le poche fotografie dell’autrice da giovane. In questa raccolta, che raggruppa reportage scritti fra il 1939 e il 1964 insieme a ben sedici scritti inediti, la lente scura è ovviamente il filtro attraverso il quale la scrittrice analizza e descrive la realtà: un velo di "malinconia e protesta" che le permette di trasfigurare il mondo in quadri astratti e visionari, permeati da metafore e ossimori, dove ad essere ritratta è la marginalità delle esistenze, il confino di classe, il fallimento della Ragione, l’irraggiungibile chimera della Verità. Il cammino della Ortese non conosce tregua, il suo sguardo continua ad aprirsi sul mondo e gli itinerari non appaiono mai prestabiliti. Quando ciò avviene, un imprevisto, l’uggia di un momento, il terrore irrazionale dell’aereo, introducono un elemento di instabilità, di variazione, di casualità. Questa dimensione caotica trova espressione anche nella prosa, definita dalla stessa autrice come una "scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante", nonché nella struttura asimmetrica dei reportage all’interno del libro, organizzati secondo una tripartizione che resiste ogni contiguità cronologica, geografica e perfino tematica. 

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Voce della critica

      È per merito dell'instancabile ricerca e della divertita curiosità di Luca Clerici (per usare le parole stesse dell'autrice) che vengono pubblicati ora in un unico volume (La lente scura, pp. 501, € 24, Adelphi, Milano 2011) scritti di viaggio di Anna Maria Ortese che hanno un'origine e una destinazione molto diverse. La prima sezione riproduce un dattiloscritto di corrispondenze scelte dalla stessa autrice trent'anni fa, nel 1982, per un libro che non uscirà mai; la seconda ordina articoli per la prima edizione della Lente scura (1991); la terza parte costituisce, invece, una selezione postuma indipendente dalla volontà della scrittrice. Un libro di libri, o meglio un libro di articoli, composto con un perfetto lavoro filologico e che si mostra tuttavia programmaticamente squilibrato e asimmetrico. La prima sezione è ordinata cronologicamente, la seconda no e gli stessi luoghi ritornano in più parti, visti in modo diverso e addirittura opposti. Tuttavia proprio tale organizzazione macrotestuale "all'insegna dell'infrazione", come spiega Luca Clerici nella nota al testo, consente di mettere a fuoco alcuni aspetti interessanti della scrittura di una delle autrici più complesse e difficili del nostro tempo. La lente oscura che viene applicata allo spazio e al tempo del mondo ha sicuramente a che fare con la "mezza oscurità", la "chiarezza dolorosa e sfuggente" che, secondo quello che Anna Maria Ortese diceva a Dario Bellezza in un'intervista del 1983, è "il vero volto – vorrei dire stile – del mondo". La scrittrice cerca in tutti i modi di sottrarsi alla "chiarezza dolorosa e sfuggente del mondo" e al suo destino di viaggiatrice. L'immagine di lei – sulle banchine delle stazioni, nell'atto di trascinare un bagaglio, nel momento della tentazione di non salire (o di non scendere) da un treno, nella promiscuità di un convoglio verso la Russia in cui ci si comprende a gesti e si piange e si ride nel buio – è quella che rimane più fortemente impressa nella memoria del lettore. È la figura nevrotica e atterrita dal mondo ("la sola idea di un viaggio a Roma mi riempiva di spavento"), in cui riconosciamo la scrittrice schiva, che si addormentava in cucina con la macchina da scrivere sulle ginocchia, sempre ai limiti della sopravvivenza, preoccupata di stare in compagnia del male senza rendersene complice, simile in tutto alle creature minime e selvagge partorite dalla sua fantasia, al cardillo addolorato, all'iguana perennemente angosciata da pericoli incombenti. Un punto di vista di sensibilità estrema per cui chi guarda sceglie di collocarsi fuori dalla storia, se la storia è quella in cui la terra ligure è devastata dal turismo (Viaggio in Liguria) o quella in cui Milano ha tradito la sua vocazione salvifica per i poveri, per gli emigrati: "Milano era per me, tanti anni fa, l'Arca dove Dio salvava gli italiani poveri dal tumulto e l'offesa della natura, riconosceva a tutti un diritto, chiamava tutti col nome di uomini" (Il silenzio di Milano). C'è sempre, nei resoconti di Anna Maria Ortese, la delusione di chi vede profanata l'innocenza di un luogo, perse le tracce di un'antica grandezza (Inglese a Roma), contraddetto uno stereotipo o delusa un'aspettativa: "Mi domandavo per quale motivo Parigi non è una città di vacanze, intendo vacanze d'estate, e ieri sera, stamane, il treno che viene dall'Italia non caricò che me e uno studente diretto a Le Havre" (Il mormorio di Parigi). Per reggere lo sconcerto e la delusione del mondo così com'è occorre tenere sempre lo sguardo fisso nell'Utopia, che non è fuga in un mondo che non c'è, ma piuttosto, come dice implicitamente la scrittrice nella prefazione, il principio regolativo, il "non luogo" ideale che tiene alta la speranza e permette di non distogliere lo sguardo dalla realtà: "Nel vivere umano, mentre i decenni e i mezzi secoli rotolano via sempre più in fretta, con un effetto di turbine e di rovina – non visibile e quindi non rimediabile – io vedo da tempo una macchia, come vedo una macchia nella natura dell'uomo anche buono, e forse una macchia nel sole stesso. E a questa percezione – devo dire – è forse dovuta la mia propensione per il poco – o il nulla – e la mia reverenza per l'Utopia – sempre alta e presente come una luce bianca tra le nuvole basse, nello sconfortato vivere". Tanto più interessanti, quindi, gli scritti di viaggio – in un confronto diretto con il mondo così com'è, nell'immersione piena in odori, colori, sapori, nel disagio, nell'estraneità e nell'angoscia di chi pensa alla casa lontana – se riportati a questo costante sogno dell'Utopia che è anche un rifiuto delle "macchie" della realtà. Lo comprendiamo anche meglio leggendo una lettera a Pietro Citati del 1986, riportata nel volume di scritti sulla letteratura e l'arte, Da Moby Dick all'orsa bianca (recensito in questa stessa pagina da Raffaella D'Elia) e che presenta una decisa dichiarazione di poetica, nel rapporto – che qui viene finalmente reso esplicito – con l'opera di Elsa Morante: "Lì, le tenebre, la oscurità iniziale (??????...) una certa linea da seguire, che doveva non smarrirsi nel 'naturale' – non atterrare nel 'mondo', che è inesistenza. Elsa ha creduto nella inesistenza, nel miraggio, ha visto terra dove non era. Questa, per me, la sua tragedia. Un'anima perduta. Perduta anch'io, ma intuendolo e accettandolo (generalmente, o almeno finche sarò in piedi). Non credo nel reale. O almeno non nel comune reale". È da questa lucida affermazione che è anche una resa (per cui la scrittrice si dichiara anch'essa "perduta" per mancanza d'ingegno) che bisogna partire per leggere questi scritti di viaggi. Perché nel reale Ortese non sa scorgere nulla di comune o di consumato dal giudizio. Tutto è oggetto di una curiosità piena di compassione, perché lo spavento e il bisogno di separatezza (quasi di segregazione dal mondo), anziché costituire degli ostacoli (come ci si aspetterebbe a ogni riga) funzionano paradossalmente come amplificatori dell'udito e dello sguardo. Ogni incontro è segnato da un rispetto che è sempre a un passo dall'affetto ed è subito fonte di rimpianto. Nel viaggio Da Praga al confine sovietico, la scrittrice viene interrogata e rassicurata da un ufficiale che conosce la sua lingua e poi se ne va: "Quel momento che l'interprete scomparve ai miei occhi, fu terribile. Dietro i suoi occhiali, sotto i modi distanti, avevo sentito un uomo della nostra Europa; avrebbe potuto essere un belga o un francese o anche un tedesco del Sud; persona civile, forse non estranea agli studi. Mi aveva nominato sua madre. Ora, con me, non c'era più nessuno, o mi pareva". Il ritratto dei luoghi è del resto spesso il ritratto delle persone, che la scrittrice rappresenta sempre con calore e da vicino, con una lente pulita e sorridente e senza soluzione di continuità con il paesaggio. Così, accanto a una bellissima descrizione del cielo di Genova ("È argento e acciaio fusi insieme"), troviamo una stupita annotazione: "Scoprivo un'altra cosa, insieme alla straordinaria freschezza degli animi: una possibilità di essere fraterni senza saperlo, fraterni e attenti a chi passa, se è stanco, una spontanea e prodigiosa capacità di affiancare chi è stanco". È questa la risorsa che emerge dai molti viaggi della scrittrice, a Roma, Genova, Napoli, in Sicilia, a Dover, in Russia: proprio per il suo carattere fugace e passibile di equivoco, il viaggio acquista un fascino e una valenza metaforica. Solo così, attraverso i finestrini o le cortine delle nebbie e del fumo dei viaggiatori, si può aprire una breccia nel mistero delle vite degli altri. Condividere qualche passo, reggere un braccio, consolare lacrime (come capita con la sensibile viandante russa) senza capire da dove vengono. Frequentare amici, anche, come quelli della rivista "Sud" con cui la scrittrice vide nascere e tramontare utopie, stare sempre, come racconta in Luci di Sicilia, con gli occhi fissi sulla porta, aspettando l'ingresso "di chi non sarebbe venuto mai. Monica Bardi

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Conosci l'autore

Anna Maria Ortese

1914, Roma

Anna Maria Ortese è stata una scrittrice italiana. Esordì nel 1937 col volume di racconti Angelici dolori, che parvero richiamarsi al "realismo magico" di M. Bontempelli. Ma le opere successive (L’infanta sepolta, 1950; Il mare non bagna Napoli, 1953, premio Viareggio; I giorni del cielo, 1958; Silenzio a Milano, 1958) rivelarono una tempra narrativa aliena dal gioco cerebrale della poetica novecentista: a metà fra il saggio e il racconto, questi libri innestano le invenzioni favolose in squarci documentari di estrema esattezza e lucidità. Polemica morale e fantasia trasfiguratrice s’intrecciano ancora nei romanzi successivi: L’iguana (1965), Poveri e semplici (1967, premio Strega), Il porto di Toledo (1975), Il cappello piumato (1979), e negli...

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